Nel Libro della Costituzione non ci sono la morte e la guerra

Vi sono formule che, in brevi parole, racchiudono mondi interi. Una di queste è contenuta nell’art. 27 della Costituzione, che vieta la pena di morte; un’altra, nell’art. 11, dove è detto che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Morte e guerra sono decisioni irreversibili, dalle conseguenze irreparabili. Una volta prese, non si potrà tornare indietro; non sarà possibile dire, se non per beffa tragica nei confronti delle vittime: mi sono sbagliato. Solo chi è certo della propria verità e della giustezza assoluta delle proprie convinzioni potrebbe colpire i suoi simili, il suo prossimo, con una condanna a morte o con una dichiarazione di guerra. Ma la democrazia è il regime che non consente queste certezze. La democrazia è il sistema politico che si basa sul provare e riprovare, sulla discussione in cerca delle soluzioni sempre più umane, adeguate ai problemi e rispettose delle ragioni degli uni e degli altri. E’ il regime delle decisioni provvisorie che non contempla ragioni assolute, se non quelle della dignità umana e dei diritti e dei doveri reciproci che ne derivano. Morte e guerra sono invece l’interruzione assoluta del logos, il ritorno allo stato belluino, il confronto reciproco non con la forza delle parole e degli argomenti, ma con la violenza distruttrice. Non è senza ragione che le nazioni, quando conquistano o riconquistano la libertà e la democrazia, inscrivono nelle loro Costituzioni il divieto della pena di morte e il ripudio della guerra. Se non lo fanno, abbiamo il diritto di dubitare di loro.
In effetti, alla Assemblea Costituente del popolo italiano, questi due principi si affermarono immediatamente, quasi naturalmente, come conseguenza della libertà riconquistata e della democrazia che si voleva costruire. E’ importante scavare nel loro significato civile.
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(a) – Il divieto della morte come pena, dispensata dagli uomini contro altri uomini, significa che la vita non è mezzo ma è fine. Non è lecito allo Stato sottrarla nemmeno a chi si è macchiato dei crimini più terribili: né per riequilibrare la giustizia violata e rimettere in pari il piatto della bilancia, in applicazione del criterio della vendetta: occhio per occhio, dente per dente; né per ammonire e spaventare i potenziali delinquenti, con la minaccia della più disumana delle sanzioni. In entrambi i casi, la vita diventerebbe un mezzo e sarebbe così umiliata e posposta, nella scala dei valori, ad altri pur importanti ma certo non equivalenti alla vita. La dignità umana sarebbe calpestata e gli individui potrebbero facilmente diventare dei fantocci nelle mani dei governi. Perfino di fronte all’omicida lo Stato deve fermarsi. Contrariamente a quanto si sostiene in altri Paesi dove esiste ed è largamente applicata la pena di morte (Cina e Stati Uniti d’America, per esempio), da noi il valore della vita è uguale per tutti gli esseri umani e non dipende da quello che essi abbiano fatto di buono o di cattivo. La vita dell’omicida non vale di meno di quella del benefattore dell’umanità. Per questo, contiene una contraddizione etica il precetto vetero-testamentario: hai ucciso, devi morire! La vita non può infatti considerarsi sacra quando è quella della vittima e non più sacra quando è quella dell’omicida. O è un fine in tutti i casi o si corre rischio che diventi un mezzo, quando occorre in vista di qualche altro valore brandito come una clava tra gli esseri umani. Se abbracciamo questa seconda possibilità, siamo pronti per lo Stato totalitario, lo Stato, per l’appunto, che considera gli individui al servizio dei suoi scopi e dispone di loro come e quando vuole. Se non vogliamo avventurarci per questa china pericolosa, dobbiamo rispettare la dignità e, prima ancora della dignità, la vita di ogni persona. Ci dobbiamo difendere dai criminali ma solo con i mezzi che non contraddicono la possibilità che essi siano nuovamente accolti nel consorzio civile e che il valore della loro vita sia di nuovo affermato. Per questo, l’articolo 27 della Costituzione ha anche stabilito, coerentemente, che le pene, oltre a non poter consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, devono tendere alla rieducazione del condannato. E la Corte Costituzionale, conseguentemente, ha stabilito che l’ergastolo (la pena a vita) è legittimo solo a condizione che il detenuto possa sperare di ottenere qualche beneficio che gli consenta, prima o poi, di rientrare, almeno parzialmente, nelle relazioni sociali, in conseguenza della «rieducazione» raggiunta.
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(b) – Il ripudio della guerra è a sua volta l’estensione a tutti i popoli del riconoscimento della medesima dignità. Ciò comporta, come conseguenza, che le divergenze, sempre possibili sul piano internazionale, devono essere affrontate e risolte politicamente, cioè pacificamente, e nel rispetto del diritto alla libera esistenza di tutte le nazioni. Noi comprendiamo così quanto la Costituzione si distacchi da ogni retorica della guerra e diverga radicalmente da ogni politica nazionalista e imperialista. E’ vuota retorica quella di chi (anche grandi filosofi, come Hegel, si sono accodati a questa idiozia) dice che la guerra è come il vento che anima le acque stagnanti dei popoli e genera vita, solidarietà, buoni sentimenti. Noi sappiamo bene, invece, che essa non libera affatto la parte più nobile dell’umanità. Stuzzica invece la sua parte brutale: la guerra è il terreno di coltura di ogni violenza, sopraffazione, umiliazione del prossimo (pensiamo alle torture dei prigionieri, alle «pulizie etniche», agli stupri di massa, alle uccisioni gratuite per puro sadismo) e coinvolge inevitabilmente le popolazioni civili. La guerra è il crimine massimo perché colpisce gli innocenti. L’ingiustizia assoluta – quella che non può avere giustificazione – è infatti quella compiuta contro chi è privo di colpe. Nessuna buona intenzione, fossero pure la pace o l’armonia universali, può giustificare una sola lacrima innocente: figuriamoci le stragi cieche, le deportazioni, i campi di concentramento. Quando ci viene fatta balenare l’ipotesi di una «bella guerra» – l’equivalente della «bella morte» onorata dai fascisti – al di là delle motivazioni (le nobili motivazioni si trovano sempre), pensiamo a tutto questo e raddoppiamo gli sforzi per le soluzioni politiche, non disperando mai. Ancora la Costituzione indica la strada da percorrere: le limitazioni della sovranità aggressiva degli Stati, in condizioni di uguaglianza, e la creazione di un ordinamento internazionale capace di assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. L’Onu è oggi la speranza, ma è ancora troppo debole. Agire per rafforzarne l’autorità è operare per la Costituzione. La guerra sia solo l’extrema ratio di fronte alle aggressioni; sia solo la guerra difensiva che si giustifica non per qualche ragione di potenza, come vorrebbero tutti i bellicisti del mondo, ma solo come risposta all’aggressione, quando tutti gli sforzi per preservare la pace sono caduti.
La storia, tuttavia, ci ha reso edotti: non c’è guerra d’aggressione che non sia stata presentata come difensiva; non c’è lupo che non si sia camuffato da agnello. Questo, contro le speranze dell’umanità, è un tempo di guerra e la dottrina della guerra preventiva ha di molto allargato il concetto di legittima difesa nel campo internazionale. La pace vuole coscienze che veglino e non si lascino sedurre dalle trombe e trombette guerresche dei tanti che, per i più diversi motivi, hanno voglia di menare le mani e, per questo, allargano a fisarmonica i concetti che riescono utili allo scopo.