Nel laboratorio del consenso tedesco

Nel 1868 Pasteur ottenne un prestigioso riconoscimento accademico dalla facoltà di medicina dell’università di Bonn. Più tardi, dopo l’esito della guerra franco-prussiana (1870- 1871), che vide la disfatta della Francia, Pasteur rinviò il diploma al preside della facoltà, affermando, tra l’altro, di non sopportare che il suo nome comparisse assieme a quello di Guglielmo di Prussia, re che definiva «oggetto di esecrazione nel mio paese». Il gesto fu ispirato a un fervente e ingenuo patriottismo che il clima francese, se non giustifica, almeno spiega. Sta di fatto che la condotta di Pasteur fu colma di conseguenze: negli anni Ottanta si sviluppò una polemica accanita, spesso avvilita sino all’invettiva personale, tra lui e il grande batteriologo tedesco Robert Koch (una polemica di cui fece le spese anche Ilya Mecnikov – ricercatore russo scopritore della fagocitosi, che faceva parte della côtérie di Pasteur – il quale dovette attendere il 1908, tredici anni dopo la morte del suo maestro, per ottenere il Nobel); soprattutto cominciò a diffondersi in Occidente l’idea che le scienze, dalla fisica alla biologia alla medicina, fossero, al pari delle industrie e delle forze armate, faccende nazionali, sì che una grande scoperta cominciò a essere riguardata come una vittoria, di volta in volta, della Francia, della Germania o dell’Inghilterra e il tardivo riconoscimento di uno scienziato o una mancata acquisizione conoscitiva, una sconfitta della sua patria.
Fini impropri
Gli ultimi due decenni del XIX secolo e i primi due del XX segnarono la morte dell’idea della scienza come di un’impresa conoscitiva senza confini, perciò stesso pacifica, e della comunità scientifica internazionale come di una res publica litterata disancorata dalle esigenze di questo o quel potente in coerenza con il sogno, vagheggiato da Leibniz, di un’internazionale dei dotti, di null’altro preoccupati se non della ricerca della verità e animati dall’amore del sapere per il sapere. Fu, tra il XVII e il XVIII secolo, soprattutto nel pieno furor dell’Illuminismo, che gli scienziati elaborarono altresì l’idea della neutralità della scienza, una neutralità che non tiene conto di altro valore che non sia quello conoscitivo e che non riconosce altro potere che, accettato il valore assoluto della conoscenza scientifica, sia disposto a offrire mezzi e risorse per studi e indagini senza l’implicito fine di sfruttarli a fini impropri. Si avrebbe torto nel ritenere, come è accaduto dalla seconda metà degli anni ’60 del ‘900, che quella della neutralità sia una mera e ipocrita ideologia, neppure meritevole della necessità di confutarla, giacché all’idea di un sapere scientifico neutrale è sotteso un imperativo, non meno etico che conoscitivo, che prescrive di non asservire la ricerca a scopi che non si risolvano in un beneficio per l’intera famiglia umana. Il fatto che questo imperativo sia costantemente disatteso è, per certi versi, altrettanto poco rilevante quanto la circostanza che i fondamentali diritti umani, tanto spesso proclamati, siano costantemente calpestati. Di qui a scoprire che la neutralità della scienza è un postulato etico al pari dei postulati dei diritti universali corre tuttavia una strada, una delle tante percorse dall’interminabile storia dell’infamia, fatta di omertà, silenzi, complicità di cui si macchiarono molti degli scienziati del ‘900. A costituirne il primo ignobile esempio furono quelli tedeschi durante il nazismo cui ora uno storico inglese, John Cornwell, ha dedicato Gli scienziati di Hitler. La scienza, la guerra e il patto con il diavolo (Garzanti, pp. 556, 28 euro). Dalle sue pagine emergono due fatti importanti: Hitler e i suoi trovarono un terreno fertile in cui gettare il seme della loro nefandezza; quanto accadde nella Germania nazista ha un sinistro sapore di attualità.
Significativo il caso di Philipp Lenard (1862- 1947), un brillante fisico sperimentale, che nel 1905 vinse il Nobel per il suo lavoro sui raggi catodici. A un innegabile talento di ricercatore si associava in lui un carattere ombroso, controverso, contrassegnato da invidia, un indubbio focolaio paranoico e una sostanziale incapacità di socializzare, tutti tratti che fanno del personaggio un individuo meglio inseribile, come interessante caso clinico, in una storia della psichiatria che non in una storia della fisica moderna. Aveva letto le famose memorie pubblicate da Einstein negli Annalen der Physik (1905), tra cui il fondamentale scritto Su un principio euristico concernente la produzione e la distribuzione della luce, costituenti il nocciolo della teoria della relatività ristretta, e la lettura gli aveva suscitato non poche perplessità e dubbi. A dire la verità non era stato il solo e non soltanto tra i fisici sperimentali. Più tardi avrebbe affermato, proprio quando ormai il mondo scientifico aveva riconosciuto il genio di Einstein, che la teoria del fisico di Ulma, era una tipica «turlupinatura ebraica». Sarebbe semplicistico liquidare questa espressione come una volgarità sfuggita, un mero infortunio non infrequente nelle polemiche tra gli scienziati. In realtà, non è così. Come tutti i paranoici Lenard aveva colto un elemento di verità, ma, da buon paranoico lo aveva frainteso, interpretandolo come un indebito attacco allo sperimentalismo. Vediamo perché. Nel mettere a punto la sua teoria Einstein aveva preso le mosse dal fallimento delle esperienze condotte dai fisici americani Albert Michelson (1852- 1931) e William Morley (1838- 1923) per misurare con uno speciale apparecchio, l’interferometro, le variazioni di velocità della luce e aveva studiato con molta attenzione le spiegazioni del fallimento delle esperienze fornite da altri studiosi, come Hendrik Anton Lorentz (1853- 1928), una ipotesi, quella di Lorentz, assai suggestiva che si incentrava su un’elegante dimostrazione matematica. Einstein cominciò a pensare che Lorentz, al di là dell’indubbia genialità della costruzione avesse creato una semplice ipotesi ad hoc e alla fine riuscì a dimostrare che non era possibile misurare la variazione della velocità della luce per la semplice ragione che non c’era alcuna variabilità da apprezzare. Com’è noto, la costanza della velocità della luce in ogni punto dell’universo divenne il fondamento della teoria della relatività e un irrinunciabile assunto di base della teoria fisica moderna. In buona sostanza, Einstein era riuscito a trasformare un insuccesso in un successo. Lenard, facendosi campione dello sperimentalismo, si sentì preso in giro e accusò Einstein di avere giocato un brutto scherzo alla scienza da «ebreo qual era». A modo suo aveva ragione. Einstein, per sua e nostra fortuna, sapeva scherzare. Qualche storico della scienza potrebbe rintracciare nella potenza di riflessione di Einstein il suo agganciarsi alla secolare tradizione speculativa ebraica; qualcun altro, forse più giustamente, individuarvi una spia della sua personalità savio-selvatica, da individuo incline allo scherzo, al witz, pronto a vedere la scienza alla stregua di un gioco insieme serissimo e divertente. Comunque Einstein, del che nessuno oggi può più dubitare, aprì la via alla comprensione di fatti prima indecifrabili. In altre parole, Einstein «aveva salvato i fenomeni» e in fisica, come in qualsiasi altra scienza, è questa la cosa più importante. Lenard non se ne rese conto o, meglio, non volle rendersene conto. In questo ebbe ovviamente torto. Ricollegandosi alla tradizione sperimentalistica della fisica in Germania, da Paracelso a Helmholtz ai suoi contemporanei, Lenard, lungi dal tenere presente la semplice verità che, se la riflessione senza l’esperimento è inattendibile, il secondo tuttavia è cieco se non è accompagnato dalla prima, fece dei giganti che l’avevano preceduto gli esponenti di una «fisica tedesca» contro cui si muoveva la congiura orchestrata da Einstein e dagli scienziati ebrei. Finì con il creare un’associazione per la difesa della fisica tedesca, scrisse un’assurda enciclopedia pseudoantropologica, Die grosse Naturforscher (I grandi naturalisti, 1929), in cui sosteneva che i grandi scienziati, da Ipparco di Nicea a Heinrich Hertz – suo maestro che, tra l’altro, era almeno per metà ebreo, essendo ariana solo la madre – appartenevano al ceppo germanico-ariano; fu tra i corifei di Hitler, quando questi era ancora un agitatore senza gran seguito e, soprattutto, contribuì potentemente ad alimentare l’antisemitismo nella vita culturale e accademica tedesca. Quando nel 1933 Hitler pervenne al potere, sapeva di poter contare sui fisici. A dire la verità si limitò soprattutto a sfruttarne le competenze, coinvolgendoli, da un lato, nel fallito tentativo di fabbricare la bomba atomica, dall’altro, nella costruzione – questa purtroppo riuscita – delle «bombe volanti» che devastarono Londra.
Le tare del Führer
Ovviamente né Hitler, di cui non si sottolinea mai abbastanza la sconfinata ignoranza e l’assenza di qualsiasi serio bagaglio culturale, né i capi nazisti avevano la più superficiale infarinatura di reali contenuti biologici e medici. Incentrando l’ideologia nazista sulla presunta superiorità di un’improbabile razza pura, non poterono tuttavia fare a meno di dotarsi di una serie di concetti pseudoscientifici costruiti, in misura prevalente, su sprovvedute volgarizzazioni dei principi dell’evoluzionismo classico. Tanto per fare un esempio, un principio della teoria classica dell’evoluzione, secondo cui i processi vitali in natura sono dominati dalla sopravvivenza del più adattato (fitness), venne reinterpretato quale principio della sopravvivenza del migliore, identificato, in termini demici, con la pura razza ariano-germanica incarnata nel popolo tedesco. Applicando il principio come una sorta di dovere etico cui ispirare il controllo biomedico della popolazione tedesca, il regime impose una serie di iniziative che andavano dalla sterilizzazione degli individui portatori di tare ereditarie all’eliminazione – per altro non attuata totalmente – dei disabili mentali, degli omosessuali e degli psicotici. Quando, nel corso della II guerra mondiale, il territorio del Reich si estese a dismisura e la sua popolazione finì con il comprendere un’area estesissima del vecchio continente, si arrivò non solo all’eliminazione integrale degli ebrei (attuando la «soluzione finale» decisa nel 1942), ma anche a esperimenti medici praticati su cavie umane costituite dagli infelici dei due sessi rinchiusi nei lager. Se è appena il caso di sottolineare che le peggiori nefandezze furono compiute dall’élite militare del Reich, le SS, una simile politica non sarebbe stata possibile senza il coinvolgimento dell’industria farmaceutica e chimica e, in particolare di un numero rilevante di ricercatori e medici. I nazisti ebbero facile gioco: per una sorta di affinità elettiva trovarono i loro uomini tra le persone che, per la loro personalità al limite della psicosi, erano più simili a loro. Il personale per la ricerca nei campi di sterminio fu infatti reclutato tra studiosi frustrati, docenti senza cattedra, medicastri, tra i quali il famigerato Mengele, come risulta dalla minuziosa ricostruzione di Cornwell che completa quanto già si sapeva. Ma c’è una circostanza che possiamo mettere a fuoco proprio in virtù della documentata ricerca dello storico inglese. Si tratta, per la precisione, di un vero e proprio gap conoscitivo o, come si preferisce dire oggi, di una fallacia epistemologica.
Molto prima dell’avvento di Hitler al potere, diversi studiosi, alcuni dei quali anche rispettabili, avevano cominciato a studiare l’eugenetica, una scienza allora giovane e associata alle conoscenze genetiche dell’epoca. La disciplina era vista come una strategia conoscitiva intesa a migliorare, a livello demico, le possibilità di salute della popolazione, combattendo le tare ereditarie e altresì monitorando e contrastando i fattori che secondassero l’esplosione e l’involuzione endemica delle malattie infettive a decorso epidemico. In sé l’idea non era sbagliata. Solo che un demo non è un’entità astratta che, in qualche modo, si sostituisce agli individui che lo compongono. Gli scienziati tedeschi, divenuti poi compagni di strada del nazismo, non tennero conto di questa banale verità e per curare un corpo, identificato prima con il popolo tedesco e più tardi con qualsiasi contesto demico definibile quale ariano, procedettero alla sostanziale devastazione degli individui, dalla sterilizzazione all’eliminazione fisica, riguardandoli, per l’appunto, come le membra malate di un corpo altrimenti sano. Di questo fraintendimento furono vittime gli omosessuali, considerati come malati e, in forza della loro condotta sessuale, portatori di una patologia contagiosa. Tutti i «malati incurabili» – quali erano percepiti ebrei, zingari, omosessuali, disabili, psicotici, nonché gli affetti da tare ereditarie – potevano perciò essere utilizzati come cavie umane.
Le colpe dei vincitori
Cornwell non si limita all’indignazione, spesso di maniera, che prende il pubblico tutte le volte che si va a esaminare l’abominio del nazismo. Precisa, infatti, con grande onestà intellettuale, che nei sessant’anni trascorsi dalla fine della II guerra mondiale i paesi vincitori si macchiarono di misfatti analoghi a quelli compiuti dai capi nazisti; in prima fila le due superpotenze della guerra fredda, Urss e Usa (il Pentagono autorizzò tra l’altro la somministrazione di sostanze patogene a un gruppo di militari americani per studiare il processo patogenetico di malattie gravi).
Chiedersi come sia potuto accadere questo dopo il processo di Norimberga è una domanda ineludibile. Rispondere non è certo facile e nessuno può certo accontentarsi di risposte che invocano superiori ragioni politiche. Poiché, comunque, iniziative del genere non sarebbero state possibili senza il coinvolgimento diretto della scienza americana, è sul banco degli imputati che vanno collocati gli scienziati. A dire la verità non manca certo chi lo ha già fatto ma va osservato che spesso la passione ha preso il posto dell’argomentazione razionale, relegando i denuncianti nel ghetto delle «anime belle». Ma forse qualche cosa si può fare. Qualcuno invoca il principio di responsabilità del ricercatore. Altri, prendendolo in parola, osservano, come Carlo Bernardini, autorevole fisico italiano, che la prima responsabilità di uno scienziato è quella che ha nei confronti della comunità scientifica. Ha ragione. Ma la comunità invocata da Bernardini è quella nazionale, magari quella americana, o quella internazionale? A dire la verità quest’ultima, a prescindere della condivisione di banali regole di fair play nella conduzione della ricerca, non ci pare sia più in vita. Tenuto conto del fatto che, se è vero che l’impresa scientifica ha bisogno di mezzi i quali, forniti dai governi delle grandi potenze e dalla grande industria, veicolano gli interessi peculiari del capitalismo globale, è però anche vero che nessun potere ha la competenza che dà all’impresa scientifica un’immensa capacità di contrattazione. Rivendicarla, dando vita a una leibniziana internazionale dei dotti, è possibile a patto di condire il succulento piatto della ricerca con il sale della perplessità filosofica. Qualche aiuto lo possiamo dare noi poveri filosofi, a condizione, beninteso, di smettere di estenuarci con l’irrilevante e di trastullarci con sofisticate, e spesso stucchevoli, fantasticazioni epistemologiche. Ne saremo capaci? Non ci resta che sperarlo.