Le trasformazioni nella divisione internazionale del lavoro hanno assegnato ai vecchi centri industriali un ruolo sempre più legato alla direzione, alla progettazione e all’innovazione. A quel contesto vanno ricollegate le «riforme» che hanno investito il mondo della scuola e dell’università, in nome del passaggio ad una «economia della conoscenza». Da vent’anni a questa parte i postulati di fondo dell’approccio «riformatore» sono chiari: formazione e ricerca pubbliche debbono svolgere una funzione di servizio rispetto allo sviluppo economico e l’impresa dev’essere il modello organizzativo per aule e laboratori. Come hanno ben intuito i numerosi manifestanti che negli ultimi anni hanno occupato la scena pubblica in difesa dell’università, il primato della (presunta) razionalità e universalità dell’economia veicola in realtà corposi interessi e occulta i conflitti fra i diversi gruppi sociali interessati alla produzione e diffusione del sapere. Ed è attorno alla retorica sulla società della conoscenza che ruota il recente fascicolo delle Actes de la recherche en sciences sociales , la rivista fondata nel 1975 da Pierre Bourdieu (http://www.ehess.fr/centres/cse/actes. html), che raccoglie inoltre alcuni studi sulle Économies de la recherche . Come sottolineano i curatori Julien Duval e Johan Heilbron, l’esigenza di «riflessività», cioè di conoscenza delle condizioni che rendono possibile l’attività scientifica, si sposa in queste pagine alla consapevolezza che solo l’analisi oggettiva dei campi della produzione culturale può fondare la resistenza agli effetti perversi della mercificazione del sapere. La posta in gioco di queste trasformazioni non è infatti meramente corporativa, ma riguarda la qualità della conoscenza e la cruciale dialettica fra autonomia ed eteronomia del mondo della ricerca. Criteri meritocratici e virtù della concorrenza sono continuamente invocati per sanare i mali dell’università: più raramente ci si interroga sulla definizione dei criteri di merito. Il contributo di Paul Wouters sulle origini della «scientometria» ci ricorda che uno degli strumenti più diffusi di valutazione della ricerca, l’indice delle citazioni scientifiche ( Sci ), riposa su una serie di presupposti spesso trascurati. L’indice misura il numero di riferimenti ad un articolo presenti nella letteratura scientifica e dovrebbe tradurre il rilievo della ricerca e del suo autore. Nato negli Stati Uniti degli anni ’60, il Sci prese a modello l’indice delle citazioni giuridiche, creato nel 1873 per semplificare l’operato di giudici e avvocati, nel quadro di un diritto fondato sull’autorità delle sentenze precedenti. Applicare quell’esempio al mondo della scienza significava reinterpretare il concetto di «citazione», che nel corso del XIX secolo si era diffuso in tutti gli ambiti di studio in forma di note bibliografiche. Infatti, specie nelle scienze storico-sociali, il significato dei riferimenti alla letteratura specialistica può essere molto diverso, anche all’interno dello stesso articolo, e l’indice finisce col tradurre anche i rapporti di forza accademici e non solo il rilievo scientifico.
Autonomia scientifica
All’idea della necessaria autonomia del campo scientifico, teorizzata da uno dei padri della sociologia della conoscenza, Robert Merton, si contrappongono oggi le tesi di chi critica la «differenziazione» della ricerca. Questa dovrebbe essere al contrario considerata un’attività produttiva come le altre, permeabile alle sollecitazioni del contesto sociale, anche in forma di scambi economici. L’ampio studio di Erwan Lamy e Terry Shinn, dedicato ad un campione di ricercatori francesi creatori di imprese parallele ai loro laboratori, rivela che anche nei ricercatori che operano sul mercato resta la coscienza delle frontiere fra le diverse dimensioni della ricerca. Una volta che sia garantita da strutture pubbliche, l’autonomia scientifica sembrerebbe dunque reggere alle tensioni della commercializzazione. Proprio alla ricerca universitaria sono dedicati due importanti contributi. Yves Gingras e Brigitte Gemme analizzano la «presa» del campo scientifico su quello universitario, un fenomeno che data dall’800. Questo fenomeno spiega perché in tutti i paesi occidentali l’ultimo ciclo della formazione superiore (il dottorato o Ph.D) sia governato dalla logica della ricerca. Tuttavia l’allargamento delle scuole di dottorato in un contesto di restrizione del reclutamento e di precarizzazione della condizione post-dottorale, fa sì che solo una piccola parte dei dottorandi riesca ad entrare stabilmente nei quadri della ricerca pubblica. Si tratta di un vero spreco di risorse intellettuali, che ingenera inoltre nei giovani studiosi una percezione deformata del proprio status e un conseguente senso di frustrazione. Più in generale, è il modello «humboldtiano» di università, nel quale i docenti sono anche ricercatori e l’insegnamento si basa sulla ricerca, ad essere chiamato in causa dalle recenti trasformazioni. Sylvia Faure e Charles Soulié dedicano il loro intervento agli effetti della «seconda massificazione scolastica» sulle differenziazioni interne della ricerca. Tracciano un quadro attento alle continuità storiche di tre grandi aree della ricerca, le scienze, le scienze sociali e le discipline umanistiche. Per quanto differenziate per reclutamento sociale, peso relativo dell’insegnamento, dotazione di infrastrutture, fonti di finanziamento e pratiche della ricerca, tutte queste aree hanno conosciuto una forte crescita dei compiti amministrativi e pedagogici, a scapito della ricerca vera e propria, un fenomeno denunciato talora come «secondarizzazione» dell’università (da noi: «liceizzazione»). In realtà queste trasformazioni sono l’effetto del mancato adattamento al secondo allargamento dell’accesso alla formazione: oggi sempre più studenti frequentano le nostre università, che hanno però mantenuto dimensioni e organizzazioni adatte alle fasi precedenti. In generale, crescono le lauree a indirizzo applicato e professionalizzante, più dipendenti dalla domanda economica e sociale e dagli sbocchi locali, ma entrano in crisi i percorsi tradizionali, legati alla ricerca scientifica pura o alle discipline umanistiche. Anche in Italia, gli studenti non sono certo invogliati a darsi alla fisica teorica o alla storia antica, quando il destino, nei migliori dei casi, sembra essere quello della precarietà o della fuga all’estero. Gli ultimi due contributi esaminano il mondo dell’editoria. John B. Thompson si sofferma sul mondo di lingua inglese e sulla crisi delle case editrici, sia quelle dedite alle monografie di ricerca (le University press ) che quelle specializzate nella manualistica. Bruno Auerbach sottopone invece a vaglio critico l’idea di un specifica crisi editoriale delle scienze storico-sociali, ricondotta generalmente all’esaurirsi delle «mode» intellettuali del dopoguerra e alla disaffezione degli studenti per la lettura. In realtà l’offerta di titoli è in continua crescita, proprio perché è legata all’allargamento del corpo studentesco, come testimoniano i livelli di tiratura complessivi, le vendite e l’ampliamento delle biblioteche universitarie.
Le scienze disinteressate
È una produzione spesso parcellizzata, che stampa talora poche centinaia di copie per titolo e viene fruita soprattutto da lettori professionisti o da studenti costretti dai programmi (di qui il ricorso al prestito e alle fotocopie), ma non raggiunge il mercato generale dei lettori colti. Dietro il discorso della «crisi» Auerbach legge acutamente il rimpianto «etnocentrico» degli studiosi per una lettura «disinteressata» ed «estetica», che collocherebbe le scienze sociali sullo stesso piano della letteratura o della filosofia, ma riconosce che accettare la dissociazione fra funzione cognitiva e culturale delle ricerche di sociologia o storia presenta rischi e costi che pochi son disposti ad assumere. Chi potrebbe accettare, infatti, la definizione di «vera scienza» offerta agli inizi del Novecento dal filosofo Charles Sanders Pierce e qui ripresa, come «studio delle cose inutili»? Eppure, con Emile Durkheim, anche se la «ricerca della verità per la verità» fosse una «aberrazione» o un’«illusione», il fatto che individui e istituzioni la perseguano resterebbe comunque un fenomeno da spiegare storicamente e socialmente.