“Necessarie politiche attive del lavoro”

Pubblichiamo di seguito il breve intervento di Luigi Cavallaro apparso sul Corriere della Sera di venerdì 28 aprile.

Cavallaro interloquisce con un articolo del giuslavorista Pietro Ichino, pubblicato ancora sul Corsera due giorni prima.

Che cosa sostiene Ichino in quell’articolo?

Essenzialmente quattro cose:

coloro i quali riconducono le tendenze occupazionali (ed in particolare la crescita del lavoro precario) dell’ultimo quinquennio alla legge 30, e non al «pacchetto Treu» del 1997, sbagliano bersaglio;
l’impatto complessivo delle misure di politica del lavoro varate dal governo Berlusconi non ha corrisposto ad effetti di liberalizzazione del mercato (segnatamente l’aumento dei contratti a termine sul totale dei contratti di lavoro);
ad aumentare è stata invece la “percezione diffusa” della precarietà, figlia dell’aumento dei precari cronici (quelli «impigliati a lungo nella trappola del lavoro precario») sul totale dei contratti a termine;
ammesso che, oltre che una percezione, ciò sia un dato, tale fenomeno «nasce dall’aumento delle disuguaglianze di produttività tra gli individui nella società postindustriale, cui le imprese reagiscono aumentando le disparità di trattamento».
La conclusione di Ichino è semplice: invece che aumentare il costo del lavoro a termine (come si appresta a fare il futuro governo) rafforziamo professionalmente i soggetti deboli e aiutiamoli a trovare una collocazione in cui possano rendere al massimo.

Ecco come risponde Luigi Cavallaro, confutando soprattutto l’ultima tesi che, di fatto, scarica l’intera responsabilità dell’insufficiente produttività del sistema sul fattore lavoro.

(s.o.)
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Necessarie politiche attive del lavoro (dal Corriere del 28/4)

Ha ragione Pietro Ichino («I precari? Non sono aumentati», Corriere del 26 aprile) a richiamare l’attenzione sull’erroneità della credenza che ascrive alla legge Biagi la responsabilità della crescita del lavoro precario nel nostro Paese: come lo stesso Ichino ha già ricordato su questo giornale, la legge 30/2003 ha solo disciplinato figure contrattuali già ben note alla pratica, apportando talora (come nel caso dei co.co.co.) modifiche in senso perfino restrittivo.
Ho qualche dubbio, invece, sull’affermazione di Ichino secondo cui l’aumento dei «precari impigliati» (cioè di quelli che trascorrono da un contratto a termine ad un altro senza alcuna certa prospettiva di stabilizzazione) sarebbe dovuto all’«aumento delle disuguaglianze di produttività tra gli individui della società postindustriale, cui le imprese reagiscono aumentando le disparità di trattamento». Una simile affermazione, infatti, suggerisce che la disoccupazione sia un fatto imputabile prevalentemente all’offerta di manodopera e non considera che, in una società capitalistica, la «produttività» compete al «capitale» e solo metaforicamente al «lavoro».
In effetti, se per «produttività» di un fattore della produzione intendiamo genericamente la sua capacità di produrre un flusso di utilità per chi ne è proprietario, possiamo pure ritenere che il lavoro sia in sé «produttivo», visto che dalla prestazione lavorativa il lavoratore ritrae un reddito. Ma questo reddito, in una società capitalistica, dipende dal fatto che l’imprenditore preveda di poter utilizzare con profitto la forza-lavoro messagli a disposizione dal lavoratore. E siccome è all’imprenditore – e non al lavoratore – che compete l’organizzazione dei fattori della produzione, la «produttività» di ogni singolo fattore si risolve, in ultima analisi, nella sua capacità di procurare all’impresa un flusso di profitti almeno pari al saggio corrente d’interesse.

Se ciò è vero, non è detto che basti «rafforzare professionalmente i precari», come suggerisce Ichino, per consentir loro di trovare un’occupazione stabile: per fare un esempio paradossale, un fisico nucleare non potrebbe trovare alcun impiego in una società i cui imprenditori fossero dediti alla pastorizia. Il che suggerisce che è la debolezza della nostra struttura industriale e la sua incapacità di reggere il confronto con i Paesi tecnologicamente più avanzati a rendere il lavoro «poco produttivo», non già un’insufficiente formazione dei nostri lavoratori.

In quest’ottica, aumentare il costo d’uso del lavoro a termine non è detto che debba comportare, come teme Ichino, la condanna dei precari alla disoccupazione: al contrario, potrebbe essere una frusta salutare per indurre i nostri imprenditori a non cercare più nel lavoro precario un (comodo) sostituto delle svalutazioni competitive, e a dedicarsi piuttosto alla ricerca e all’innovazione.

Sarebbe più facile, allora, pensare a politiche attive del lavoro che aiutino i lavoratori «a trovare la collocazione in cui possono rendere di più», come giustamente auspica Ichino. Soprattutto, non si tratterebbe più di un contratto a tre mesi come telefonista in un call center.

Luigi Cavallaro
Giudice del lavoro presso il Tribunale di Palermo