Neanche per punire una dittatura si può fare la guerra

«L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» Proprio così, «ripudia»: nemmeno nella dodicesima delle disposizioni transitorie e finali, quando vietano la ricostituzione sotto qualsiasi forma del partito fascista, i costituenti hanno usato termini così gravidi di implicazioni etico-affettive.
La disposizione è talmente semplice che, al suo cospetto, sembra di dover dar torto agli innumerevoli seguaci del circolo ermeneutico e alla loro pretesa che da un dato testo possa discendere qualsiasi norma: qui non c’è da interpretare, tant’è che chi non ne voleva sapere di acquietarsi all’unica norma desumibile dal testo ha pensato bene di negarne in radice il significato giuridico.

Ma il testo un significato ce l’ha, eccome. Il ripudio della guerra non è soltanto la netta opposizione al passato delle relazioni internazionali, centrate sulla primazia dello Stato e del suo inalienabile “diritto alla guerra”, ma – come emerge dal secondo e terzo periodo dell’art. 11, secondo cui il nostro Paese «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» e «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» – rappresenta anche la prefigurazione di un ordine futuro, post-nazionale, post-statuale, veramente globale.

Poiché sempre più spesso si è costretti a sentire il contrario, che cioè il testo costituzionale sarebbe datato e non terrebbe conto del processo di globalizzazione e delle nuove esigenze di sicurezza che ad esso si accompagnano, conviene esplicitare quanto più possibile il punto di vista qui sostenuto.

E’ noto che l’ordinamento giuridico internazionale si è strutturato sul principio secondo cui non sono gli individui ad essere diretti destinatari delle sue norme: esso ha regolato (e tuttora regola) eminentemente i rapporti tra gli Stati e solo mediatamente, cioè per tramite di questi ultimi, le situazioni soggettive individuali. Detto altrimenti, sulla scena dell’ordinamento internazionale gli individui sono stati sin qui presenti soltanto attraverso quella loro personificazione collettiva che è lo Stato: essi hanno acquistato diritti e doveri (e responsabilità) solo per tramite degli Stati cui sono soggetti. La “Dichiarazione dei diritti dell’uomo”, per fare solo un esempio, obbliga gli Stati che vi aderiscono a garantire ai loro cittadini i diritti in essa contemplati e attribuisce per converso ai cittadini di ciascuno Stato il diritto – da esercitarsi nei confronti dello Stato cui appartengono – di richiederne l’applicazione.

Nasce da qui la configurabilità della guerra come sanzione per gli illeciti previsti dall’ordinamento internazionale: la guerra, infatti, presuppone una responsabilità collettiva e oggettiva in virtù della quale gli individui pagano – anche con la vita – per il semplice fatto di essere cittadini dello Stato autore dell’illecito internazionale.

Ed è stato convincentemente argomentato che non avrebbe senso “personalizzare” tale responsabilità facendo leva sulla rappresentatività degli organi statali: il principio si afferma con la sua inesorabile logica anche nei confronti degli appartenenti a Stati dispotici, che certo nessuna colpa hanno degli illeciti internazionali compiuti dal loro governo, visto che non possono sceglierlo o controllarne l’operato.
Sennonché, i fatti del Kosovo e i molteplici e drammatici attacchi terroristici di questi ultimi tempi hanno portato prepotentemente alla ribalta internazionale proprio gli individui. Donne, uomini, vecchi e bambini, brutalizzati da regimi tirannici o vittime innocenti della follia terroristica o responsabili di quella stessa follia. Dinanzi a fatti di questa portata – ecco, in sintesi, la domanda che si suole porre a quanti si ostinano a ritenere che la guerra debba essere sempre e comunque ripudiata – quale tutela offre l’ordinamento internazionale vigente? » possibile restare inerti di fronte a massacri di massa? Non risuona forse imperiosa l’esigenza di rispettare le “leggi dell’umanità”, quelle «leggi non scritte nei codici dei re alle quali obbediva Antigone», come scrisse Piero Calamandrei all’indomani del processo di Norimberga?

E’ proprio nei confronti di domande come queste che l’art. 11 mostra, ad onta dei suoi detrattori, tutta la sua perdurante vitalità e valenza precettiva. Dalla sua formulazione, infatti, è facilmente desumibile il principio per cui l’ordinamento giuridico internazionale deve senz’altro evolversi fino a tutelare direttamente i diritti dell’individuo e sanzionare direttamente quegli individui che si siano resi colpevoli della loro violazione. E deve quindi sforzarsi di apprestare una tutela nei confronti dei cittadini di ciascuno Stato contro gli abusi compiuti anche dal loro governo, democratico o tirannico che sia, e colpire i responsabili di crimini contro l’umanità come il terrorismo anche contro la volontà degli Stati che, eventualmente, diano loro accoglienza o protezione: è precisamente questo l’obiettivo a cui dovrebbero mirare quelle organizzazioni internazionali finalizzate a promuovere la pace e la giustizia fra le nazioni, nei cui confronti i nostri costituenti si sono risolti addirittura alla limitazione della sovranità statuale, vale a dire ad un passo che suonerebbe bestemmia agli orecchi di un giuspubblicista del diciannovesimo secolo (e in verità anche a molti del ventesimo e del ventunesimo).

Il punto è che, in un quadro del genere, la guerra non può più rappresentare uno strumento sanzionatorio: essa infatti colpisce non i responsabili della violazione dei “diritti umani” ma tutti i cittadini di quello Stato, anch’essi titolari dei medesimi diritti inalienabili che si vorrebbero in ipotesi tutelare o risarcire. Consapevole di questo legame, Hans Kelsen scrisse che, nella stessa misura in cui il diritto internazionale avesse preteso di ingerirsi in questioni prima lasciate alla regolamentazione dei singoli Stati, avrebbe dovuto superare il principio della responsabilità oggettiva e collettiva e dar luogo ad un sistema di responsabilità personale fondata sulla colpa. La raccomandazione è quanto mai opportuna: nessuna bandiera di civiltà può sventolare, ieri come oggi, chi si è reso responsabile, nei confronti dei cittadini serbi o afghani o iracheni – delle loro città, dei loro ponti, delle loro fabbriche, della loro vita – delle stesse indiscriminate prevaricazioni che rimproverava a Milosevic o al regime taliban o a Saddam Hussein di compiere in danno del loro popolo.

L’attuazione degli auspici di coloro che invocano l’ingerenza umanitaria o la lotta al terrorismo porta insomma a conclusioni antitetiche alla loro esortazione a superare il ripudio della guerra sancito dall’art. 11 della Costituzione. Il quale, piuttosto, offre un discrimine semplice e netto rispetto al quale orientarsi nelle difficili decisioni concernenti le nostre missioni all’estero: è evidente, infatti, che un conto è un’operazione di “peace-keeping” promossa dall’Onu e condotta con regole d’ingaggio analoghe a quelle che informano l’azione delle forze dell’ordine all’interno del nostro Paese, un altro la partecipazione a missioni che – comunque denominate – avvengano al di fuori di un mandato Onu e con licenza di usare la forza anche a fini preventivi e contro la popolazione civile.

Insomma, salvo il caso d’aggressione da parte di uno Stato estero, una guerra per difendere i diritti umani è una contraddizione in termini. Tanto più che, in mancanza di organi “super partes” ai quali demandare l’accertamento e la sanzione dei crimini contro l’umanità, l’autoattribuzione del compito di “difensori dei diritti dell’uomo” da parte di un ristretto gruppo di potenze economiche e militari occidentali, che sarebbero giocoforza “legibus solutae”, rischia piuttosto di far regredire l’ordinamento giuridico internazionale ad uno stadio anteriore rispetto a quello faticosamente e dolorosamente conquistato dopo il secondo conflitto mondiale: una “guerra infinita” che incarnerebbe in sé l’essenza del fascismo, nonostante taluni ex-sessantottini si sforzino penosamente di argomentare il contrario.