Né rock né lenta. Pessima politica

Come un testo sacro, “Rockpolitik” ha la sua esegesi immediata in “Porta a porta” che ne sviscera i contenuti esibiti e latenti attraverso una fiera delle vanità raccapricciante. Ospite in sala, Fausto Bertinotti parla giustamente di «argini saltati» in un unico calderone in cui politica spettacolo e quant’altro formano l’attuale melassa psichica nella quale (non) comunichiamo. E lo fa in compagnia di un sempre più monoespressivo Vittorio Feltri, di un gongolante Ignazio La Russa, fianco a fianco con Angius che filosofeggia sui massimi sistemi e Bruno Vespa che pontifica. Rocco Buttiglione pure è lì e lì c’è la nostra politica, che non è né rock né lenta, è semplicemente ributtante. Bertinotti cerca di spiegare al pubblico la portata dell’influenza sotterranea del messaggio di Celentano con il sottofondo di La Russa che fa battute sull’influenza aviaria, riuscendo nella doppia contorsione da ribaltone politico e mediatico istantaneo di La Russa che imita Fiorello che imita La Russa sfottendo amichevolmente Bertinotti.
E’ un senso di profondo imbarazzo a colpire chi crede nella politica vederla immediatamente consumata nello spettacolo della celebrazione del proprio sconfinamento a appendice affabulatoria del dio share. Se il messaggio è il mezzo, la televisione che si parla addosso ha come unico vincitore Bruno Vespa, l’uomo per tutte le stagioni, il grande navigatore nell’oceano minimo dei palinsesti. Pure, in questa guazza, l’anomalia Celentano si impone perché sgarruppata, perché imprecisa, perché malconfezionata apposta. Il packaging della trasandatezza come garanzia di (neo) genuinità, un po’ come la catena dei Lush propone il sapone di massa “grezzo” e “naturale” perché non confezionato, perché esposto “così com’è” al pubblico.

Come ha detto Bertinotti replicando a Buttiglione, non si può giudicare grammatica e sintassi di un dialetto (il celentanese) secondo le regole dell’italiano mediatico. Chè è altra lingua. Ma si può certo normalizzarlo, riportarlo a giudizio attraverso l’apparato esegetico di Bruno Vespa, dove La Russa può giurare che «neanche sotto tortura potrà parlare male di Celentano» e dove Vittorio Feltri può dare all’Italia materiale di riflessione notando che il gatto non è lento, è rock o meglio, si ingarbuglia il direttore di Libero, il contrario, o forse no, perché il gatto è un felino, è lentissimo ma poi scatta e graffia, il gatto, e voi che mi state leggendo non capite più cosa sto scrivendo, e io che scrivo non so più cosa sto riportando ma questa è la televisione e questa è l’Italia a pezzi coloratissimi.

Il programma di Celentano vive sul carisma di stampo fascista di un affabulatore sapientemente autoreferenziale (fino all’esibizione ostentata all’inverosimile di se stesso come clone del proprio mito attraverso l’imitazione di Teo Teocoli), attento a non prendere posizione su nulla (cosa vuol dire «I gay sono rock, i matrimoni tra gay sono lentissimi»?). La radicale ambiguità di Celentano, che elogia il papa e liquida Zapatero, ci piace, facciamo attenzione, allo stesso modo in cui alla fine ci piace (non politicamente: televisivamente) un presidente del Consiglio che è in realtà anche un cabarettista capace, come Celentano, di dire tutto e il contrario di tutto, nella celebrazione del peggior qualunquismo anarcoide. Celentano resta lì, pietrificato nel proprio logo storico di un’estetizzante contadinismo visto dalla prospettiva del miliardario che rimpiange le belle cose di una volta. Come i copy del Mulino Bianco e di Giovanni Rana. Tra parentesi: facciamo attenzione, al calderone: Celentano è una cosa, Benigni un’altra, come Crozza fa satira mentre Celentano non la fa, chiusa parentesi e torniamo a Celentano. Celentano è allora il punto in cui la televisione si supera (nel concetto di superamento dialettico di quel materialismo storico che da qualche parte, insieme alle figurine Panini e a Carosello, può ancora fare parte dell’immaginario della sinistra) mostrandosi per quella che è, non certo umana, troppo umana ma mostruosa, troppo mostruosa. Assoluta e accecante finzione. Celentano non fa satira e non esprime opinioni ma le confonde attraverso un linguaggio che incorpora in sé la decostruzione ben più raffinata di “Blob” e rigurgita frammenti di storia e pensiero, lo fa in modo esplicito e per questo, come dice Bertinotti, merita di essere studiato. A fondo. Caro Fausto, ma perché tutto questo lo devi dire proprio a Porta a Porta?