L’universo del soldatino Bratslavskij
Intervista a Moni Ovadia che ha rappresentato di recente il capolavoro di Isaac Babel, L’armata a cavallo, in scena l’8 e il 9 giugno a Mosca. «Nel grande affresco sull’Ottobre – dice – lo scrittore sovietico canta l’umanità sconfitta che fa la rivoluzione ma che porta nella sua bisaccia anche tutti gli altri universi che promettono la liberazione. Compreso l’ebraismo messianico»
Abbiamo incontrato Moni Ovadia – scrittore, attore e regista – a conclusione delle sua «fatica»: ha preso tra le mani il capolavoro di Isaac Babel’, L’armata a cavallo, e lo ha proposto a teatro con una originale lettura. Dopo il successo di Roma, nei prossimi giorni, l’8 e il 9 giugno, l’opera sarà rappresentata a Mosca. «Che differenza c’è con l’interpretazione di Miklós Jancsó?», chiediamo. «Il film di Jancsó – risponde – è un capolavoro, ma lui usò l’aspetto dei `piani’, il maniacale andare e venire delle truppe e i repentini capovolgimenti di fronte, per un’operazione di altissimo valore sul linguaggio filmico; ma era poco preso dall’espressività e dai personaggi del libro».
Perché proprio L’armata a cavallo?
L’armata a cavallo è uno dei libri che più mi hanno formato. Babel’ è un grande scrittore sovietico che, pur coinvolto nella rivoluzione direttamente, scrive in modo assolutamente non celebrativo, mostrando gli essere umani nelle loro contraddizioni, deliri, ferocia. Senza mai giudicare loro e la rivoluzione. Dipanando così il tessuto delle sue piccole-grandi storie vere, cioè irreali, come quella del cosacco che dà tutto per la rivoluzione, pieno di ferite e cicatrici e poi vuole dimettersi perché lì non gli ridanno il suo cavallo. Questo è l’essere umano. Soprattutto l’essere umano cosacco. Ma anche l’essere umano ebreo con il robivecchi Ghedali che amareggiato chiede: «La dolce rivoluzione dove sta? La rivoluzione è gioia e felicità. Noi lo sappiamo che cos’è l’Internazionale, dateci un’Internazionale di uomini buoni. Noi tesseremo ogni anima al partito e le diremo: siediti alla tavola della vita anima e gioisci!».
Babel’, come Platonov, non abbandona mai l’aspetto epifanico degli eventi…
In poche parole è lo scrittore che non dimentica l’ingenuità. Qual è infatti il principale fallimento della rivoluzione d’Ottobre: di aver voluto costruire degli essere umani a misura della rivoluzione e di non aver adattato la rivoluzione agli esseri umani. L’uomo di ferro, l’uomo di marmo: l’uomo è un poveraccio! Ma anche l’uomo migliore lo è. E anche quello peggiore. Babel’ ha la capacità di leggere attraverso la cifra umana. Proprio nel momento della sconfitta, perché il fronte russo-polacco è l’unico dove i bolscevichi furono sconfitti. E’ nella sconfitta che si vede l’aspetto lancinante dell’umanità, la sua finitezza e fragilità.
Babel’ fa parte della Konnaja Armija, l’armata a cavallo, come membro dell’agenzia stampa dell’Armata rossa, la Rosta, è un bolscevico combattente. E scrivente…
Un punto di vista complessivo, in un’epoca ancora straordinaria in cui i bolscevichi litigano fra loro, si dividono con posizioni perfino contrapposte, stampano giornali diversi e si organizzano in frazioni sconosciute. Comunque Babel’ ci mostra subito che la rivoluzione ha pesantissime ambiguità che la porteranno poi a diventare quello che è diventata. Il mio spettacolo si apre con una poesia di Majakovskij del `21 nella quale già vede che la rivoluzione verrà soffocata dagli apparati di partito, l’ossessione di Lenin e poi, peggio, di Stalin che userà l’ex burocrazia zarista che rientrerà alla fine in scena, dice Majakovskij, «col piumaggio cambiato/ di Marx alla parete». Ma la stagione de L’armata a cavallo non va dimenticata. Non ne possiamo più di questa melma che cancella milioni e milioni di uomini, donne, contadini, operai, intellettuali e artigiani morti perché l’uomo prendesse in mano il proprio destino. Perché il comunismo non può essere gettato via insieme allo stalinismo. Vogliono buttare via il bambino insieme alla, tantissima, acqua sporca. Occorre dire basta. Il mio spettacolo? E’ un soldatino rosso che alla fine si rivela essere una donna, una ballerina in realtà, il soldatino Kordiakov che balla l’agonia della rivoluzione, perché la rivoluzione è una fragile ballerina rossa, che bastava poco per farla andare in pezzi.
Al fronte, racconta Babel’, i comandanti dell’armata rossa Budennyi e Voroscilov andavano a cavallo tra i soldati e li convincevano ad andare avanti perché a chiederlo era `il governo inusitato degli operai e dei contadini’…
Sì, lì c’era l’annuncio di un principio d’autorità positiva perché era la stessa cosa dell’annuncio di volontà di cambiamento del mondo: …la faccia del mondo cambia. Poi sappiamo – ma gli armati rossi a cavallo, i cavallarmati, non potevano saperlo – che non fu così. La domanda rimane aperta ancora oggi, perché il liberismo non ha risposto neanche alle proprie domande. I tre assunti della rivoluzione borghese – egalité, fraternité, liberté, – restano nel mondo lettera morta o ideologia. Si riempiono la bocca di una libertà che è falsa perché si fonda sulla disuguaglianza delle condizioni di vita nel mondo e perché la fraternità, ormai taciuta, è menzogna. La libertà senza uguaglianza è una caricatura. E poi, quale movimento si è mai rivolto alle classi subalterne perché fossero protagoniste? La sconfitta del comunismo è pro-tempore, le domande già stanno riemergendo. Resta un lungo lavoro da fare per l’uguaglianza degli uomini, a partire da quello che li presenta diseguali, vale a dire l’origine.
Cosa portano con loro di ineguale gli uomini se partecipano ad una rivoluzione egualitaria? E perché parli di «linea ebraica» in Babel’?
Ho indagato sulla «linea ebraica» de L’armata a cavallo. C’è naturalmente anche un’evidenza storica: il comitato centrale di Lenin ha una maggioranza di ebrei e mezzi ebrei: Kamenev, Radek, Zinovev, la mamma di Lenin era una una mezza ebrea svedese e poi il 25% dei padri della rivoluzione bolscevica sono ebrei, 50 delegati su 150 al III congresso panrusso dei soviet sono ebrei. Ma erano ebrei i comunisti polacchi, quelli americani e il 70% delle vittime del maccartismo. Sono due le risposte sul perché gli ebrei sono sempre stati così presenti nei movimenti rivoluzionari socialisti e comunisti, perfino nei paesi musulmani. La prima risposta riguarda il loro status storico e materiale di perseguitati e testimoni dell’inesistenza di libertà, uguaglianza e fraternità. L’altra risposta è che c’è una potentissima linea rivoluzionaria nell’ebraismo – non è l’unica, naturalmente – che passa da Abramo, quello che rompe gli idoli e che libera l’umanità dalla soggezione alle condizioni materiali. Abramo poi crea la condizione di straniero, esce da una città, non fonda una città: è l’uscita dal tribalismo di cui il nazionalismo è la forma moderna. Mosè è il primo che guida una rivoluzione dal basso: un popolo di schiavi contro il potentissimo faraone. Per la libertà. Chi ha letto la Bibbia in ebraico sa che il cosiddetto primo comandamento è quello della libertà, lì il dio del monoteismo si definisce così: «Io sono il tetragramma ineffabile, colui che ti ha tratto dall’Egitto, dalla casa degli schiavi per esser dio»: cioè io sono il liberatore, io sono dio di libertà. Sì, paragono Mosè a Lenin. Senza dimenticare l’uso necessario della violenza. La rivoluzione di Mosè infatti è cruenta, c’è la morte dei primogeniti egizi, c’è lo scontro anche con quelli che vogliono ritornare in Egitto. Questa linea verrà ripresa da tutti i profeti, fino al messianesimo che altro non è che redenzione e giustizia sociale. Nella legge biblica la decima parte di ogni campo doveva essere per i poveri, ma non per carità: per legge. Il giubileo ebraico è una forma di rivoluzione permanente, perché ogni cinquant’anni i diritti di proprietà venivano azzerati e riconsegnati. Di pari passo con l’annuncio di Dio che dice «davanti a me siete tutti stranieri». E’ per questo che io considero il nazionalismo ebraico una delle peggiori regressioni idolatriche che l’ebraismo abbia avuto: è un disastro. Ma ancora oggi esiste una linea dell’ortodossia totalmente antinazionalista. Non tutti gli ebrei sono per fortuna come Sharon.
Ma la letteratura sovietica mostra un diffuso messianesimo, non solo di matrice ebraica, anche cristiana e laica. Penso a I dodici di Aleksandr Blok, al Villaggio della nuova vita di Andrei Platonov. Eduard Bragrickij è ebreo, ma nel poema L’ultima notte canta la rottura con l’ebraismo reazionario del ghetto, quello delle «lame di sghembe barbe». Insomma in quel momento la rivoluzione comunista comprendeva al suo interno altri punti di vista messianici…
Se è vero che non esiste una verità assoluta, per esempio quella dell’Occidente cristiano o laico che sia, ma tante relative verità, può allora esistere un’idea di liberazione più esclusiva, «assoluta», delle altre? Che cosa ci dice L’armata a cavallo di Babel’ in proposito? Il personaggio chiave per me è quello del soldatino Bratslavskij, «principe» ebreo i cui padri furono grandi Rabbini. Babel’ lo raccoglie agonizzante e fruga nella sua bisaccia di soldato rosso. Il soldato rosso muore per la rivoluzione, non ha dubbi; però nella sua bisaccia di soldato, insieme alle pallottole e alle pagine dell’«agitatore bolscevico», porta con sè i fogli del filosofo ebreo Maimonide, i fogli della Pravda su cui ha vergato i versi del salmista insieme ai fogli del «Cantico dei cantici», i proclami bolscevichi e i filatteri, le stringhe di cuoio su cui stanno scritte le preghiere dell’ebreo ortodosso. Su questo armadietto cosmopolita io ho finito il mio spettacolo. Perché la contraddizione che Bratslavskij porta nella sua bisaccia è la grande contraddizione dell’ebraismo. Una volta chiesi ad un grande maestro d’ebraismo: ma cosa vuole la Torah da noi? Rispose: non lo dire in giro, potrei rischiare conseguenze pesanti, ma io credo che la Torah voglia da noi che diventiamo una confederazione anarchica di liberi pensatori. E’ l’idea che l’uomo sia universale.
Sì, ma non a caso Babel’ ha voluto mettere nella sacca del combattente rosso testi anche irregolari della tradizione ebraica, il poeta Maimonide, il «Cantico dei cantici»…
E’ indiscutibile che lui aderisce all’universalismo comunista, ma quello che lui non riesce a staccare da sè è la pratica universalista del «soldatino Bratslavskij», che la rivoluzione gli mette davanti in una forma inedita in cui lui si trova a suo agio. Così Babel’ aderisce ad un comunismo che comprende tutti gli universi della liberazione dell’umanità. Una grande promessa universalista. Come diceva Majakovskij: A tutti, a tutti, a tutti. Ed è il momento feroce della guerra civile del 1919-21. La rivoluzione si propone di creare l’uomo nuovo in cui gli elementi del passato scompaiano e in questo fallisce clamorosamente. Invece ognuno deve portarsi dietro un suo zaino ricolmo di universi. Ecco perché il personaggio di Bratslavskij è cruciale, lui non ha dubbi di morire per la rivoluzione, ma non ha buttato via né il «Cantico dei cantici» né il filosofo Maimonide. Si è arruolato in ritardo ma quando lo chiamano va. E un altro grande protagonista di Babel’, il robivecchi Ghedali, dice: sì, io grido alla rivoluzione ma perché dovrei dire di no al mio santo sabato? Lui chiede di poter essere dentro la rivoluzione con le sue specificità. Tutte quelle che Stalin cancellerà nel sovietismo «maturo», antidemocratico e liberticida e nel conflitto di sistemi, d’Oriente e d’Occidente. Oggi abbiamo lo stesso problema con la globalizzazione: il liberismo è lo stalinismo della nostra epoca, il modello di universalismo al quale tutti si devono piegare. La democrazia è un valore universale ma non ci si può arrivare magari islamicamente, ci si può arrivare solo americanamente.