Sono molte le ragioni dell’opposizione di Enrico Panini alla nascita del Partito democratico dalle ceneri di Ds e Margherita, «molto peggio di una fusione a freddo». Le prime due ragioni sono «la collocazione internazionale del Pd, priva di ogni riferimento al socialismo e l’assenza di qualsiasi riferimento al lavoro, cioè alla rappresentanza politica degli interessi e dei sogni di chi è sfruttato, sia nelle forme tradizionali, sia in modi ancor più pervasivi, penso al lavoro nei call center, o allo sfruttamento nel settore della conoscenza». Il segretario generale della Flc-Cgil (scuola, università e ricerca), come altri segretari delle categorie dell’industria e dei servizi della principale confederazione sindacale italiana, non entrerà nel Pd. Ce ne parla in questa intervista, che inizia con la sua storia politica: «Nel manifesto dal ’72 e nel Pdup fino al suo scioglimento. Non ho preso altre tessere di partito fino alla Bolognina, quando scelsi di entrare nel Pds con la svolta di Occhetto. Poi i Ds. Qui si interrompe l’itinerario, ma non sono io a interromperlo: sono i Ds a sciogliersi».
Partiamo dalla collocazione internazionale del Pd. E’ così importante il riferimento al gruppo socialista europeo?
Lo è per due ragioni. Per la cesura del Pd con la storia della sinistra, non solo in Italia, e perché l’ipotesi di costituire un gruppo nazionale europeo indipendente dagli schieramenti esistenti rischia di produrre una rinazionalizzazione degli schieramenti, sbagliata e foriera di effetti negativi.
E poi l’assenza dal manifesto del Pd dei lavoratori come soggetto organizzato, che non sono più un punto di riferimento…
Già, perché il riferimento sociale cambia natura e diventa l’individuo, la persona, fuori dal contesto reale.
Ce ne sarebbe abbastanza per non aderire. Vuoi aggiungere qualcosa alla lista?
La laicità, oggi dirimente nella versione colta, di accoglienza, che è nella nostra storia e nella nostra Costituzione. Il Pd che si candida a rappresentare «il nuovo», su tutti questi punti o non prende posizione o la prende sbagliata, insomma sta altrove.
Non è che il Partito democratico nasca sotto un cavolo, non a caso si presenta come la conclusione di un percorso avviato proprio alla Bolognina.
Io vedo più una rottura netta che una continuità con quella svolta, proprio perché chiude con la storia della sinistra italiana e con il socialismo, anche se è vero che dopo la Bolognina è mancata una critica di fondo delle esperienze comuniste. La rottura prodotta dal Partito democratico porta a un assemblaggio di ceto politico e semplici individui, senza riferimenti all’Europa, ai cittadini lavoratori, alla cultura.
Sei tra i firmatari della mozione Mussi-Salvi. Che percorso politico hai in mente?
Sono interessato, senza ansie, a una prospettiva in cui, insieme alle aggregazione e ai contenuti, si discutano modi e forme della politica. Un processo di riaggregazione a sinistra non è semplice, ma è il terreno su cui vale la pena operare. Si dovrà riflettere, uscendo da una pratica di autosufficienza, sull’esperienza fatta dai movimenti sul modo di far politica e porsi il problema della rappresentanza, e della costruzione dei gruppi dirigenti. Non credo nelle sommatorie di piccole forze: dobbiamo imparare a parlare a quelle straordinarie decine di migliaia di giovani incontrate nelle battaglie per la pace, i diritti, la scuola pubblica e un’università di qualità e di massa. Questi giovani rischiano di finire ai margini dei processi politici. Io sosterrò la mozione Mussi-Salvi fino al congresso dei Ds, poi con lo scioglimento del partito farò insieme a tanti compagni e compagne questo cammino di ricerca a sinistra. Credo che nella stagione politica che si sta aprendo sia importante il ruolo di confronto e ricerca che potrà svolgere il manifesto.
Quale può essere l’impatto del Partito democratico nella vita della Cgil?
Sono convinto che la Cgil debba valorizzare con uno spirito nuovo la scelta irreversibile del superamento delle componenti partitiche, che ci ha consentito di essere un’organizzazione di massa democratica e pluralista – anche nei gruppi dirigenti – con più di 5 milioni di iscritti e iscritte, un’esperienza unica in Italia. La Cgil continua a essere un sindacato, inevitabilmente chiamato a fare i conti con il fatto che le grandi organizzazioni politiche rinunciano a ogni riferimento con il mondo del lavoro e con la storia della sinistra europea. Va salvaguardata l’autonomia della Cgil, facendo però attenzione agli accadimenti, soprattutto in relazione alla rappresentanza politica del mondo del lavoro. La Cgil – una casa comune che tiene insieme lavoratori e pensionati, con e soprattutto senza tessere di partito – è caricata di domande inedite, e persino di compiti inediti. Ne dovremo parlare, senza precipitare i tempi del confronto. Dobbiamo discutere nei gruppi dirigenti e con l’insieme degli iscritti.
Intanto, però, sembra di capire che i segretari della maggior parte delle Camere del lavoro e dei gruppi dirigenti abbiano già scelto il Partito democratico….
I gruppi dirigenti della Cgil sono stati eletti sulla base di precisi programmi di lavoro: non dev’esserci alcuna relazione tra la scelta politica individuale, qualunque essa sia, e il ruolo di dirigente sindacale.