Sul Corriere della sera l’ex commissario europeo Mario Monti, ha criticato pesantemente la maggioranza di governo e i presidenti delle Camere per le ultime scandalose nomine all’antitrust. Ma, per affermare sacrosanti principi liberali sul terreno dell’informazione e della comunicazione, l’ex commissario sostiene che essi deriverebbero naturalmente dall’applicazione della piena libertà di mercato e di concorrenza, voluti dall’Unione europea.
Alla vigilia di Natale, su La Repubblica, l’ex ministro del tesoro Giulio Tremonti aveva invece presentato un liberismo dal volto euroscettico, esprimendo tutto il fastidio di una certa borghesia delle piccole e medie imprese verso l’euro e i vincoli comunitari. Queste due interviste esprimono bene le due tendenze conflittuali della borghesia italiana, quella liberista europeista e quella liberista euroscettica: entrambe perdenti sul terreno della competizione internazionale e della ripresa dello sviluppo.
Durante il fascismo l’industria italiana dovette a lungo sopportare il fardello del cambio “a quota 90” della lira con la sterlina. Quel valore artificialmente alto della moneta nazionale, voluto da Mussolini per ragioni di potenza, fu un disastro per il sistema industriale.
Oggi, con l’euro che oramai vale 140 centesimi di dollaro, siamo ad analoghi effetti catastrofici. La guerra commerciale e monetaria degli Stati Uniti all’Europa, attuata attraverso la svalutazione del dollaro, fa paradossalmente come prima vittima proprio il paese più vicino agli Usa: l’Italia. Francia e Germania reggono meglio, in virtù di un’economia più forte, più avanzata tecnologicamente, più governata dallo Stato. Il nostro paese rischia invece più di tutti.
E’ infatti la prima volta dal dopoguerra che una crisi industriale in Italia non può essere affrontata agendo sui fattori fondamentali della politica economica. La moneta è bloccata, la spesa pubblica pure, l’intervento dello stato a sostegno delle imprese vietato dall’Unione e rifiutato da gran parte del sistema economico. Mai il paese, dal ‘45 ad oggi, aveva affrontato una stretta economica e mondiale così disarmato.
Il centrosinistra continua a esaltare la conquista dell’euro e ad incolpare il governo Berlusconi della gravità della crisi. Il governo, a sua volta, contesta i vincoli europei e propone una ripresa dello sviluppo fondata sulla riduzione delle tasse ai ricchi, ricetta a cui non crede più nessuno. Così non si va da nessuna parte. La crisi italiana è diversa da altre del passato e le posizioni prevalenti in entrambi gli schieramenti politici che si fronteggiano, finiscono invece per minimizzarla. E’ vero che in questa Europa, con questa politica economica liberista a governo dell’Unione, l’Italia rischia di essere vittima sacrificale. E’ vero, altresì, che la propaganda euroscettica di Berlusconi può servire per una campagna elettorale, con una popolazione che nella sua grande maggioranza non arriva a far bastare gli euro alla fine del mese, ma non affronta certo la crisi produttiva ed economica del paese. Lo stesso confronto che si preannuncia tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria, rischia di camminare sulle nuvole. Tutti sono capaci oggi di dire che ci vogliono più ricerca e più competizione sulla qualità. Il punto è: chi paga i giganteschi investimenti necessari a non far regredire il paese? E chi li fa? Non certo l’attuale classe imprenditoriale, né quella che fa riferimento alle posizioni di Monti, né quella che la pensa come Tremonti.
La questione di fondo è come uscire dalle due diverse, entrambe perdenti, prospettive liberiste che vengono delineate per il paese. E per farlo, prima ancora che definire le risposte, è necessario porsi le domande di fondo sullo sviluppo economico dell’Italia.
Il nostro paese deve avere un’industria dell’auto e, più in generale, una grande industria competitiva? Deve essere presente nell’informatica e in generale nelle nuove tecnologie? Sono necessari servizi adeguati ovunque? E, infine, ma non da ultimo, si può ancora competere con salari scandalosamente bassi, che sono alla base della stagnazione del mercato interno? Se queste sono alcune delle domande di fondo, allora bisogna dire che nessuna politica liberista, per quanto temperata da regole e antitrust, potrà dare risposte ad esse. Solo una politica economica ed industriale governata dallo stato, che definisca priorità ed indirizzi e che apra tutti i conflitti che devono essere aperti con la politica economica dell’Unione europea, può far riprendere la crescita del paese. Dalla Cina all’Argentina, è oramai chiaro che nel mondo crescono quei paesi che sono in grado di mettere in discussione l’ortodossia liberista in tutte le sue versioni. Del resto così fa anche amministrazione Bush con il suo imperialismo militare finanziato dal deficit pubblico, da quello commerciale, dalla svalutazione della moneta.
I liberali come Monti, che difendono fondamentali principi, sono destinati a cedere di fronte ai liberisti come Tremonti, perché accettano la più falsa delle affermazioni del pensiero unico: quella secondo la quale la libertà derivi dal libero mercato. L’esperienza insegna che oggi è vero l’esatto contrario. No, con la direttiva Bolkestein non si ridurrà il potere di Berlusconi, o di chi per lui, in Italia come in Europa. Se non si affermerà una politica economica diversa, non solo rispetto a quella dell’attuale governo, ma anche a quella dei governi precedenti, non solo può succedere che alla fine Berlusconi vinca di nuovo le elezioni. Ma soprattutto il paese continuerà a sprofondare nella peggiore crisi industriale del dopoguerra.