Di nuovo, con la caccia all’uomo e la strage di Gaza, è calato il silenzio sulla Palestina. Un silenzio fitto e robusto come il muro di Sharon che continua implacabile sulla sua strada, stermina città, villaggi, alberi, vite innocenti. E la speranza. Silenzio e muro. Muro e silenzio. Due facce di una tragedia senza fine, due costruzioni per occultare la triste realtà di chi – un intero popolo – non sa più che cosa fare e a chi appellarsi per difendersi dalla incombente morte individuale e collettiva e dalla menzogna quotidiana che gli cadono addosso. E da un silenzio all’altro, nulla cambia: uccisioni ogni giorno, restano le colonie «legali», il Muro è ormai una realtà, resta l’occupazione militare.
In certi momenti, in questi momenti, tutto sembra un destino inspiegabile, talmente enorme e insopportabile da assumere il carattere della dannazione. Di fronte alla quale smarrisce non solo la speranza laica in una pace possibile, ma anche la fede nella misericordia di un dio nella terra di dio e dei profeti, mentre al suo posto si insedia il dio dell’odio e della vendetta.
Quando la sofferenza e l’ingiustizie prolungate nel tempo raggiungono questi livelli, accompagnate da irragionevole e determinata volontà di rifiutare ogni compromesso come sta facendo Sharon, svelano le intenzioni del più forte di calpestare, umiliare ed annientare l’altro. E’ quello che Sharon, aveva già dichiarato di volere fare, sta lì ancora nel suo programma elettorale e di governo, quando ha detto di volere spezzare i palestinesi per costringerli in ginocchio a chiedere il cessato il fuoco, e di volere continuare il lavoro iniziato nel 1948; è un impegno che aveva assunto il Likud, il suo partito.
Non sono incidenti di percorso, ma un «lavoro» lucido, sistematico e pianificato, fatto da uomini come noi, eredi e testimoni della violenza subita da altri, che alla fine hanno trovato nel silenzio della comunità internazionale, per impotenza o per ipocrisia, un complice e un alleato.
Sharon è l’allievo e l’erede di Jabotinsky che spiegava già nel 1923, in due saggi intitolati «Il muro di ferro», quale sarebbe stato l’atteggiamento di Israele verso i palestinesi. «Finché gli arabi avranno un barlume di speranza – scriveva – nell’avere successo di liberarsi di noi, niente al mondo li potrà spingere a rinunciare a tale speranza, proprio perché non sono plebaglia, ma un vero popolo», e più avanti aggiungeva: «Dobbiamo andare avanti senza prestare attenzione ai sentimenti dei nativi . L’insediamento potrà quindi svilupparsi sotto la protezione di una forza che non dipende dalla popolazione locale, dietro un muro di ferro che essi non avranno il potere di distruggere». Qualche anno dopo anche BenGurion arrivava alle stesse conclusioni .
La giornata della memoria non era conclusa, che a Gaza è stata macchiata dal sangue palestinese, dall’esecuzione a freddo di giovani che hanno osato, con coraggio e disperazione, di opporsi ad un’invasione militare di proporzioni gigantesche, contro civili inermi. Incursioni che si ripetono ogni giorno, lasciando sul terreno morti innocenti, case distrutte ed alberi sradicati, e cancellano ogni segno di vita in luoghi già sofferenti per altre espulsioni nel passato e precedenti amare memorie.
Come fa una parte del popolo della memoria a umiliare un altro popolo, al punto di considerarlo incapace della propria memoria? In nome di che cosa la comunità internazionale non interviene? Sono stati già scritti e firmati possibili accordi. E gli interlocutori, in entrambi i popoli, ci sono.
Temo che una parte significativa delle lacrime giustamente versate oggi nel ricordo, rischiano di assomigliare all’ipocrita silenzio complice del passato. Perché allora sapevano di ciò che si consumava nei lager, come sanno oggi come si muore in Palestina. Sono due cose separate e diverse, certo non paragonabili, ma l’ipocrisia è la stessa perché di morte si tratta.