Muore Enrico, Genova si ferma

Magone, rimpianto, ma anche rabbia. Sono le parole che ricorrono di più sulle bocche dei portuali che ieri a centinaia sono scesi per strada e hanno bloccato lungomare Canepa ad oltranza dopo la morte dell’ennesimo lavoratore. Facce nere come quei fumi che si alzavano dai copertoni bruciati o dalle pire alimentate dalle bobine e dai travi dei pallettes smontati, fuochi in mezzo alla strada, lì davanti al terminal Eritrea dove si fatica tutti i giorni, a poche centinaia di metri da ponte Somalia e dal terminal frutta dove c’è scappato il morto.
Questa volta è toccata a un uomo di 40 anni, sposato, due figli. Si chiamava Enrico Formenti, è rimasto schiacciato sotto un carico di cellulosa. E’ la trentesima vittima del porto in dieci anni. Lo hanno scritto anche i portuali della Fossa dei grifoni alla partita Genoa-Bologna ieri sera al Ferraris con l’aggiunta di «Ora basta, ciao Enrico». «Poteva toccare a chiunque di noi – dice Gianni – questo è il porto dei record italiani, il porto di maggior traffico, ma c’ha anche il record di morti. Si sta prendendo il nostro corpo a pezzetti. Chi un braccio, chi una falange, chi una gamba». Accanto a lui Piero sventola la mano, gli manca un pezzo di dito e «l’Inail non mi ha riconosciuto niente, come mi fossi fatto male in campagna».
Nei giorni scorsi c’erano già stati due feriti e i lavoratori avevano scioperato nelle ultime due ore di turno. Ieri il morto. E’ già successo tante volte, ma questa volta non ne possono più e così alla fine, «una partecipazione insperata».
Dopo aver vegliato il corpo massacrato di Enrico e aver portato dei fiori finché non se l’è portato via la mortuaria, trecento lavoratori sono usciti dai cancelli e si sono piazzati nel mezzo della strada. Loro e i loro fuochi, e in poche ore anche una ruspa e un bilico. Ci sono tutti, quelli della Ferport, della Gmt, di ponte Somalia, qualcuno del Vte e della Culmv (la compagnia unica), in rappresentanza di 7 mila lavoratori circa. Poi qualcuno se ne va via e arrivano altri fino a sera.
I sindacati confederali, vista la rivolta, hanno abbozzato e proclamato uno sciopero di 24 ore che arriva fino alla mezzanotte del sabato, ma quello che qualcuno chiama «collettivo della piazza» ha stabilito che lunedì si va in città dalla stazione Marittima alla Prefettura con variazioni di percorso.
«Sono anni che parliamo di sicurezza – spiega Marco, 9 anni in porto – ma qui ormai lavoriamo a cotimo. Lo stipendio base è di 900 euro poi se fai gli straordinari arrivi a 1100, 1200. E dopo un po’ saltano tutti i meccanismi di salvaguardia. Cosa fai quando magari sei al terzo turno consecutivo perché la nave è stata stivata male e c’è da rifissare il carico? So di qualcuno a cui è capitato di fare anche 24 ore di seguito dormendo cinque minuti in attesa della nave. A questo punto sono i lavoratori che devono imporre la sicurezza, altro che i sindacati».
Il ritmo di lavoro è incalzante. Lo dice anche il segretario provinciale della Filt-Cgil Bosco, che sta un po’ in disparte: «Ci vuole un piano che ponga rimedio alla questione sicurezza, che parli dei ritmi di lavoro e dei controlli sulla prevenzione, affidati per poteri alle Asl e per uomini e potenzialità agli ispettori dell’Autorità portuale».
Intanto ai discorsi si mescolano le ricostruzioni di quello che è successo alla mattina. Sembra che Formenti fosse accanto a due pacchi di cellulosa spostati sui carrelli e messi su dei pallettes che alla fine forse erano marci e hanno ceduto. Il carico di 1700 chili più altri 1700 gli è franato addosso uccidendolo. «C’ho giocato a pallone due settimane fa con Enrico, ma se sto a pensare a ‘ste cose mi sale una rabbia ancora più grande che mi fa venire voglia di spaccare tutto», dice uno con gli occhi un po’ lucidi. «E’ un omicidio, non una morte sul lavoro – grida un altro – i responsabili sono le istituzioni. Sono quelli che dicono che se critichi metti a rischio la produttività. Ormai al porto vorrebbero che stessimo tutti zitti».
Il problema è che di ispezioni non se ne vedono quasi mai, e chi parla di sicurezza viene bollato come un disfattista. «Qualche giorno fa abbiamo dimostrato che cosa sarebbero i ritmi di lavoro in porto se si lavorasse veramente in sicurezza – racconta uno – Lo sai che è successo? I giornali locali hanno scritto che facevamo lo sciopero bianco». «I terminal ormai sono ghettizzati – dice il delegato Uil alla Ferport, la ferrovia del porto, Stefano Degl’Innocenti – Prima si comunicava. Oggi è tutto un filo spinato, del terminal vicino non si sa niente». E poi mancano gli spazi per lavorare, le strutture sono ferme all’Ottocento.
La rabbia sale, si inveisce contro le auto, ci s’allontana quando arriva un’ambulanza. Ma il malcontento continua. I figli se la prendono con i padri e così quando alle cinque di pomeriggio arriva il console della Culmv Paride Batini e consiglia ai lavoratori di arretrare con i mezzi al limite del porto, qualcuno gli grida «ti sei mangiato tutto, stai zitto». Anni fa non sarebbe successo.
E mentre si alza un vento sferzante da Ponente che spazza il lungomare come la pista di un’aereoporto, qualcuno ricorda il documentario indipendente, «De Ma» di Pietro Orsatti (senzamedia.blogspot.com) censurato, appiattito. Parlava di sicurezza in porto. E qualcuno dice che era persino preveggente rispetto a quello che sta succedendo.