Con il suo articolo di fine anno, il presidente della Confindustria ha posto se stesso e la sua associazione al centro dell’offensiva per affermare il valore etico del capitalismo liberista, contrapposto alla politica, alle corporazioni, agli scalatori. Pochi giorni fa il vice direttore del “Corriere” aveva così efficacemente sintetizzato le vicende della Banca d’Italia: “Fazio è caduto perché ha creduto di poter fermare il vento della globalizzazione con le mani di Giampiero Fiorani”.
Da un lato dunque l’inarrestabile marcia del progresso, guidato dalla forza del mercato globalizzato, dall’altro le resistenze più o meno lecite delle forze del passato, del provincialismo e delle corporazioni? Non pare proprio così. Se ancora una volta, posti di fronte ai guidici ex potenti improvvisamente svelano di quante piccole e grandi miserie sia costellata la loro ascesa. Se ancora una volta, come durante Tangentopoli, si scoprono piccole e grandi meschinità, portate all’udibrio della pubblica opinione, nei nuovi ricchi precipitati nella polvere. Se così emerge e si sottolinea un lato ignobile del capitalismo, per affermarne all’opposto uno etico, bene è proprio quest’ultimo che non si capisce bene dove sia, chi davvero lo interpreti, cosa produca.
Saranno le multinazionali bancarie, alla fine di bancopoli, a trovare il modo di sistemarsi e sistemare la propria posizione, in accordo con i poteri più antichi. Così come nel passato è avvenuto con le multinazionali dell’industria e dei servizi. Ma tutto questo non cambierà certo la qualità dello sviluppo del nostro paese. Da anni il nostro capitalismo è percorso dal conflitto tra più antichi poteri e nuove cordate, ma alla fine di questi conflitti non ci sono mai state innovazione e progresso.
Nel passato si trattava di scegliere quale settore privilegiare, quali prodotti lanciare e quali abbandonare, quali mercati invadere e quali lasciar deperire. Qui oggi però, siamo di fronte ad altro. Dalla fine degli anni Settanta i grandi scontri del capitalismo italiano sono sempre stati su chi comanda sul piano politico e finanziario. Questi scontri non hanno mai portato a nulla di positivo. Non c’erano reali diversità di progetti industriali né dal lato dei perdenti, che si sono rinnovati periodicamente, né da quello dei vincenti, che sono sempre gli stessi. Qui c’è il grande trasformismo del gruppo di comando del capitalismo italiano. Cambiare bandiera, dal protezionismo al liberismo, dalla difesa dell’italianità al rapporto privilegiato con le multinazionali, dall’industria ai servizi, con gli stessi sempre al comando. La Fiat rappresenta plasticamente questa evoluzione. Negli anni Ottanta sconfitti il sindacato e i lavoratori, la Fiat si batté con successo contro la cessione dell’Alfa Romeo alla Ford, nel nome degli interessi industriali nazionali. Negli anni ’90 essa distolse dall’auto e dall’industria ingenti capitali che furono investiti nelle telecomunicazioni, nelle banche, nella speculazione finanziaria. A causa di queste scelte il gruppo precipitò nel disastro, da cui fu salvato, come ha ricordato Sergio Cusani sul “Sole 24 Ore” da un intervento concertato delle banche unico nella sua specie, peraltro negato a Gardini e al gruppo Ferruzzi.
Ora il presidente della Fiat e della Confindustria sostiene gli interessi dell’industria contro quelli della speculazione finanziaria e, senza però confliggere con le banche, allude alla necessità di lottare contro la rendita. Però tra i principali sponsor del nuovo corso della Confindustria stanno famiglie industriali come Benetton, che hanno smantellato la produzione tessile per investire nelle autostrade e negli autogrill.
Le vicende del capitalismo italiano di questi vent’anni non hanno presentato mai sul campo buoni e cattivi, ma solo cattivi e pessimi. Gli scalatori perdenti di questi giorni sono probabilmente tra questi ultimi, ma in fondo sono finiti tra questi ultimi, ma in fondo vi sono stati un po’ costretti. In un libero mercato brutalmente esposto alla globalizzazione, qual è il nostro, un po’ tutto è in vendita e allora che cosa si vuole comprare prima di tutto? Ciò che rende guadagni sicuri, quali telefoni, autostrade, banche e chi compra? O chi è più potente, o chi è più spregiudicato.
Non ci avevano forse spiegato che la forza del capitalismo liberista è proprio quella di permettere a chiunque di provare a diventare ricco e potente? Allora sono proprio gli scalatori dal basso coloro che più hanno praticato la modernità del liberismo. Del resto come è stata comprata la Telecom e tanti altre aziende privatizzate? Con i loro stessi soldi. Gli acquirenti hanno potuto acquistare la maggioranza delle azioni, facendosi prestare i soldi, e restituendoli poi con i profitti delle società comprate. Anche gli scalatori di Antonveneta e della Bnl hanno provato la stessa strada e il fatto che siano incorsi nell’intervento della magistratura, non cambia la sostanza. L’affermazione del capitalismo finanziario, la liberalizzazione del mercato dei capitali, traducono in tutto il mondo le scalate fatte con amicizie, accordi, intrighi. Lo scandalo Cirio e quello Parmalat sono solo la ripetizione di quello Enron avvenuto negli Usa. Tutto il mondo è paese. Il capitalismo etico del presidente della Confindustria è semplicemente lo stile dei vincenti di sempre. Del resto l’etica non centra nulla con il rispetto delle leggi, che dovrebbe essere un atto dovuto. Si potrebbe cominciare a parlare di etica andando oltre il puro rispetto delle regole del mercato. Giancarlo Pajetta disse una volta che conosceva un solo imprenditore eticamente illuminato, Olivetti, ma che era fallito. Certo, comportamenti etici nel mondo delle imprese di oggi dovrebbero voler dire rinunciare a facili guadagni per salvare posti di lavoro, investire i soldi nella ricerca invece che nella finanza, non delocalizzare le aziende per inseguire il supersfruttamento del lavoro. Ma questo non lo fa nessuno.
La verità è che si vogliono affermare come etici semplicemente gli interessi della globalizzazione, interessi dietro i quali ci sono poteri più forti e consolidati, che non hanno bisogno di ricorrere ai mezzucci degli scalatori. Oggi sono proprio questi poteri a scatenare una brutale offensiva contro la sinistra riformista e i Ds in particolare. Questi ultimi evidentemente non hanno appreso fino in fondo la lezione di quanto avvenuto a Bettino Craxi. Nel nostro Paese tutti i tentativi della sinistra di conquistare potere facendosi alfiere del capitalismo e del liberismo, sono finiti in un disastro. L’idea di competere con i poteri forti del capitalismo nel nome del libero mercato, delle liberalizzazioni, dei capitani coraggiosi, ha portato e porta alle sconfitte e all’isolamento. E’ paradossale che solo ora, il gruppo dirigente dei Ds scopra lo spirito anticomunista di certe campagne. Da noi il capitalismo liberista ha sempre affermato il privilegio di pochi e non ha mai svolto una funzione di sviluppo. Per questo più che preoccuparsi del conflitto tra antiche famiglie e nuovi scalatori, più che inseguire l’utopia del capitalismo etico, che, come è l’araba fenice, tutta la sinistra dovrebbe riscoprire l’indipendenza della politica dal mercato e, conseguentemente, ripristinare regole, diritti, poteri, programmi pubblici.
Il presidente della Confindustria ha lamentato come limite alla crescita il persistere dei monopoli e delle proprietà degli enti pubblici. E’ vero il contrario, l’Italia delle partecipazioni statali e della programmazione industriale è quella che è più cresciuta nella storia del nostro paese, quella delle privatizzazioni si è invece fermata. Per cui se si vuol davvero trarre una lezione da bancopoli si cominci a perseguire l’interesse pubblico dei cittadini contro quello del mercato e di coloro che lo comandano, che poi sono sempre gli stessi.