Montezemolo pretende il «tesoretto»

Un classico della commedia all’italiana. Intorno al «tesoretto» si è scatenata una prevedibilissima rissa. Dalle entrate fiscali sono risultati 10 miliardi in più delle attese. Padoa Schioppa ne ha riservati i tre quarti al risanamento del deficit pubblico, lasciandone 2,5 come osso da far annusare da un tavolo di concertazione all’altro. Epperciò, tutti a dire (ministri, sindacalisti, dirigenti politici): «le risorse ci sono, facciamo questo e quello».
Si potrebbero alzare le pensioni più basse, firmare i contratti del pubblico impiego, stabilizzare i precari, portare a termine qualche «grande opera infrastrutturale». Ogni voce di spesa guarda al «tesoretto» come Gollum all’anello di Frodo. Ogni governante promette qualcosa al riparo della «copertura» finanziaria che esso offrirebbe. Giustamente Romano Prodi, ieri, ha sintetizzato così la situazione: «se dovessi rispondere a tutte le domande che mi vengono, dovrebbe essere 20 o 30 volte più grande». Non è servito comunque a frenare l’orgia di dichiarazioni sui «soldi che ci sono» (Nicolais è arrivato a chiedere il ritiro dello sciopero del pubblico impiego su questa base, via giornali).
Su tutte si è però alzata la voce delle imprese, fin qui silenti. Da Genova, il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, ha messo i piedi nel piatto: «chiediamo che vengano riconosciuti i meriti che oggettivamente abbiamo nella ripresa economica». A sinistra quell’«oggettivamente» non si usa più da tempo, ma pare proprio che risponda ancora a una logica. Stringente, peraltro. «Dobbiamo mettere al centro la crescita e l’impresa», ha insistito, come se la finanziaria si fosse dimenticata completamente della vasta platea che Montezemolo rappresenta. Perché «alzare il tasso di competitività significa alzare il tasso di sviluppo», e questo «vuol dire più crescita e più benessere per tutti».
Frasi del genere sono sempre grondanti di ideologia indimostrata. Ma se cadono – come cadono – all’indomani di una ricerca europea che dimostra come i salari italiani siano ormai il fanalino di coda della zona euro (Portogallo a parte, per quanto ormai a ridosso del Belpaese), beh, allora è quasi una provocazione. Nulla della «crescita» è finito nelle tasche di chi l’ha costruita – i lavoratori – perché mentre l’inflazione aumentava i salari sono rimasti fermi, oppure si sono mossi a un ritmo assai inferiore (la mitica Inghilterra liberista li ha visti alzare del 28% in 5 anni, qui da noi meno del 14% nello stesso periodo).
Eppure alle imprese italiche non basta mai. Ed ecco Montezemolo ripartire alla carica delle pensioni, chiedendo (intimando) che non si tocchi «lo scalone», perché sarebbe «una controriforma previdenziale», addirittura «uno scippo alle giovani generazioni». I quali riceveranno una pensione da fame, sì, ma solo grazie alle riforme che si sono succedute – dalla Dini alla Maroni – imponendo il metodo contributivo. E quindi non per «colpa» di chi deve andare in pensione, ma dei governi da allora ad oggi.