Montezemolo: la 30 non si tocca

La nuova offensiva, quella della «fase 2» post-finanziaria, è già partita prima di affettare il panettone, e l’hanno sferrata i «riformisti» dell’Unione insieme alla Confindustria: si chiama «riedizione del patto sociale», «nuova concertazione», o, se preferiamo, si può utilizzare l’espressione coniata dalla Confindustria e fatta propria dal vicepresidente del consiglio Massimo D’Alema: il «patto per la produttività». La proposta è venuta dal workshop di Italianieuropei a Sesto San Giovanni, dove il vicepremier ha detto di «condividere pressoché totalmente l’impostazione di Montezemolo» sulla necessità di «un patto per la crescita, la competitività e la produttività», «un nuovo patto tra le parti sociali per il quale siamo disposti a metterci in gioco anche noi». Luca Cordero di Montezemolo non si è fatto scappare l’impegno, peraltro ribadito con gli stessi termini dal sottosegretario Enrico Letta, e ha replicato: «Siamo disponibili, chiediamo più produttività ma offriamo, in cambio, più salario». Queste le parole al seminario di domenica, ma ieri la Confindustria ha rincarato, emettendo un documento più che mai esplicito sulla legge 30 e la regolazione del mercato del lavoro. Riferendosi alla querelle linguistica che per mesi ha impegnato il centrosinistra sul destino della cosiddetta «legge Biagi», viene espressa «la convinta contrarietà del sistema Confindustria ad ogni ipotesi di abrogare, cancellare, superare, cambiare le normative che hanno introdotto alcuni principi di flessibilità organizzativa». L’unico intervento da attuare, parola dello stesso Montezemolo, è «integrare la Biagi con gli ammortizzatori sociali».
Ma cosa dovrebbe prevedere questo nuovo patto concertativo sul lavoro? Non è altro che il tema dei prossimi tavoli da aprire a Palazzo Chigi, appunto quelli della «fase 2», dove si discuterà da un lato di flessibilità, precarietà e mercato del lavoro, e dall’altro della revisione del sistema pensionistico, in base all’ormai noto «memorandum» siglato da governo e sindacati. A parte l’ulteriore alleggerimento del pilastro pensionistico pubblico, in modo da pagare in prospettiva sempre meno contributi, quello che chiede la Confindustria sul fronte del lavoro si sa bene: più flessibilità nella gestione degli orari, permettendo alle aziende di ordinare delle modifiche improvvise in base alle esigenze del mercato, senza dover passare per la contrattazione con le Rsu (perché secondo gli industriali rallenterebbe la risposta alle commesse, e dunque la stessa efficienza delle imprese).
Dall’altro lato, seppure ufficialmente ribadisca la contrarietà a cambiare le norme sul lavoro, è probabile che nell’ottica dello scambio la Confindustria accetti morbide modifiche alla legge 30, cancellando ad esempio tutte quelle forme come il job on call e lo staff leasing che praticamente nessuno utilizza. Ma guai a toccare nodi sensibili come le cessioni di ramo d’impresa o i lavori a progetto, vero nucleo della 30 e mezzi che permettono un forte risparmio dei costi e la possibilità di rispondere velocemente al mercato (i rami di azienda si cedono con i relativi lavoratori quando non servono più, con una sorta di licenziamento mascherato; i cocoprò non sono altro che dipendenti a metà prezzo, licenziabili alla bisogna).
Temi, quelli della riforma delle pensioni e di una modifica soft del mercato del lavoro, che ovviamente trovano sensibilissimi i «riformisti» dell’Unione. Ieri, dunque, il documento confindustriale ha ribadito come sia «profondamente sbagliato puntare il dito contro le riforme degli ultimi dieci anni: contrastare la flessibilità regolamentata, dal pacchetto Treu alla Legge Biagi, ha l’unico effetto di limitare la competitività delle imprese». In conclusione, si invita addirittura l’esecutivo a non agire per via legislativa: «Non può che essere di competenza delle parti sociali declinare, regolamentare e contenere o incrementare le opportunità previste dalle norme legislative, senza nuovi interventi che potrebbero ledere le delicate dinamiche negoziali». Come dire: la cosiddetta «fase 2» dovrebbe spingere il governo a mettere da parte il programma, dove si parlava di «contrarietà e superamento della legge 30», lasciando la materia a sindacati e imprese. E il mandato dato dai cittadini attraverso il voto dove andrebbe a finire?