Incontro romano con il regista de «La grande guerra». A 90 anni, si professa più libero che mai e si appresta a girare un nuovo film sul conflitto in Libia, tratto dal libro di Mario Tobino. Comunista per niente pentito, ama Melville, il cinema muto e pensa che i vincitori non siano gli unici padroni del mondo
Nella galleria dei personaggi creati da Mario Monicelli in tanti film il suo ritratto fotografico ripreso da Pino Settanni entra di diritto, proprio come un personaggio del suo immaginario. È raro che una foto riveli così tanto del soggetto e, allo stesso tempo, ne aumenti il mistero. A colori, la foto riprende un primo piano del regista che guarda la camera in tralice incorniciato da un drappo rosso porpora dal quale spicca la canizie della barba, delle sopracciglia e gli occhi cerulei. Le labbra accennano ad un composto sorriso ed è questo, il sorriso, la chiave di interpretazione del ritratto. A 90 anni suonati, Monicelli è un uomo essenziale. Vive in una casa piccola al centro di Roma, con pochi libri, pochi mobili, un grande tavolo da lavoro e ricorda, oceano a parte, quella di John Huston in Messico dove, dalle pareti calcinate, spiccavano rari mobili e oggetti. Se ne frega Monicelli se qualche tempo fa Rete 4 gli ha massacrato La grande guerra, frammezzandolo di continui e prolungati spot pubblicitari; se ne frega nel senso che, risponderebbe, lui è stato già pagato per il film ma il problema è certo più serio d’una battuta e non è da una televisione commerciale, dice, che il nostro cinema può avere l’attenzione che gli è dovuta. Intanto, Monicelli è appena tornato da un sopralluogo in Marocco dove ambienterà il romanzo di Tobino Il deserto della Libia.
Perché questo interesse per Tobino e il suo libro?
Tobino è uno scrittore che conosco da tanti anni, è mio concittadino, è uno scrittore di grande qualità; non voglio dire che fossimo proprio amici ma ci frequentavamo. Ha scritto romanzi di livello: Le libere donne di Magliano, ad esempio, è un romanzo importante. Questo libro lo ha scritto quando fu mobilitato durante l’ultima guerra. Era direttore dell’Ospedale psichiatrico di Lucca; è stato mandato in Libia a comandare una sezione di sanità. Lì ha tirato giù parecchie pagine sugli incontri, le sensazioni, le persone che ha incontrato. Anch’io ho fatto la Seconda Guerra mondiale ma in cavalleria; la Libia la conoscevo perché c’ero stato nel `38 come assistente di Genina (Lo squadrone bianco, ndr.). Mi interessava l’argomento: la guerra in Africa, e in Libia in particolare.
Quanto dureranno le riprese?
Nove, dieci settimane. Ho già fatto due sopralluoghi. Mi sono orientato su Erfoud che è ricca di oasi. Dovrò tornare per una scelta definitiva.
Tu sei uno dei pochissimi che non ha mai fatto velo della propria appartenenza politica. Per te, che cosa vuol dire oggi essere comunisti?
Vuol dire avere come obiettivo, come ispirazione un libro come Il manifesto del partito comunista di Marx, che è un libro straordinario. Ti fa capire che il mondo non è fatto soltanto di gente che vince, e che non è giusto che quelli che perdono vengano sconfitti perché non hanno la capacità, o la possibilità, di farsi largo. Non è giusto accettare passivamente che la legge suprema è quella del mercato, che è la legge più spietata, più disumana e antisociale che esista. Intendiamoci: il comunismo ha già fallito una volta, io ho conosciuto il cosiddetto «comunismo reale», sono convinto che è stato un errore e sono altrettanto convinto che si può riprendere tutto da capo e il mondo può essere governato in maniera più equa.
Sei un ottimista. Ce la facciamo a uscire dalle secche dell’Azienda Italia di stampo berlusconiano?
Non credo che sia soltanto un problema nazionale. È tutta l’Europa, il mondo occidentale che non sa dove andare, che è in continua fibrillazione. Viviamo in un marasma epocale. Naturalmente l’Italia, che è stata sempre la più fragile, è quella che ci rimette più di tutti, perché è guidata da questi dilettanti, «liberisti» che non sanno bene cos’è il capitalismo, il marxismo… Ma, ti ripeto, è una situazione che trascende il dato italiano, Berlusconi, Bossi…
Politici che sono incidenti di percorso… ma sono anche divertenti, a tratti ridicoli. Hai mai pensato a fare un film su questi personaggi?
Come fai a fare un film su di loro? Sono già delle macchiette. Di solito si prende una persona che ha una sua base, anche solida, per farlo diventare ridicolo. Se però è ridicolo per conto suo, ci pensa da solo a distruggersi, non ci si può costruire un personaggio.
Ti faccio a scoppio ritardato gli auguri di buon compleanno anche perché a Roma si dice che porti male farli in anticipo (ride; Monicelli ha compiuto 90 anni il 15 maggio). Quali sono i privilegi dell’età e del vivere solo?
Sono tanti. Intanto faccio quello che voglio, senza orari, senza gente per casa alla quale rendere conto. Ma non è semplicemente il fatto di vivere da solo. Avere 90 anni ti dà molta libertà. Intanto perché non mi possono mettere in galera, non mi possono punire, togliere la pensione, né intervenire in nessuna maniera ormai. Poi, solo per il fatto di aver raggiunto quest’età bene o male c’è un certo rispetto, ti permettono di dire delle cose che a 40 anni non ti permettevano; se hai raggiunto la notorietà, ancora di più. Io mi trovo in uno stato di grazia, di grande libertà, di perfetto benessere.
Com’è il tuo rapporto con i figli?
Buono ma io non ho avuto mai una grossa continuità con loro. Ci vediamo, ci frequentiamo; potrei dire che ho, abbiamo puntato sulla qualità del rapporto più che sulla quantità.
Che pensi della famiglia?
La famiglia è un luogo di violenza, di distruzione, di rancori. Poi ci sono le mamme che buttano i figli nel cassonetto, ma questa è un’altra storia. Riguardati Parenti serpenti.
Ma qual è la strada allora?
Vivere sul quotidiano, senza dare alla famiglia una valenza che non ha. O, meglio, affrontarla innanzitutto con equilibrio e toglierle quel significato che le attribuiamo non appena decade, perché magari non ci si ama più o perché quello che aveva importanza 10 anni fa oggi non ne ha più. Soprattutto non mettere su famiglia pensando che sia un’avventura o una tappa obbligata. C’è gente che preferisce vivere da sola o, ad esempio, in una comune.
Hai rapporti con la sinistra politica?
Seguo molto Rifondazione. Mi interessa la possibilità che si possa rifondare davvero un partito comunista su basi nuove, ma non sono un militante.
Hai mai pensato di fare un film dichiaratamente drammatico, com’è successo a Woody Allen con Interiors?
Francamente no. Mi sembra che sia superficiale trattare un argomento drammatico drammaticamente. Bisogna avere qualità letterarie e teatrali. Però penso che, nonostante tutto, alla fine il dato drammatico sia quello che rimane in superficie. Io voglio affondare il bisturi, cercare una sostanza che è in profondità, che è umoristica, caustica, spietata, che è ciò che mi diverte di più alla fine.
Allora non ti piace Bergman.
No, non mi piace affatto. Bergman è un grande regista ma non mi piace l’umanità che racconta, un’umanità che si odia, che si dilania; descrive una società che è l’opposto di quella dove vorrei vivere io, quasi senza speranza.
Qual è, dei tuoi film, quello che preferisci?
Brancaleone è quello che mi ha divertito di più, quello più fantasioso, che mostra un medioevo insolito.
Mi dicevi una volta che Il male oscuro è stato il tuo progetto più ambizioso ma poi non ha avuto successo; Brancaleone invece, ha sbancato il botteghino.
L’errore è stato quello di lasciare il titolo originale del romanzo. Magari la gente si toccava i coglioni e lo evitava.
È vero che sei venuto più volte alle mani con Germi?
(Ride) Germi era una persona di gran temperamento. Noi eravamo molto amici, ma era spesso insopportabile. A volte non ci trovavamo d’accordo su un libro, sulla politica… era socialdemocratico. Venuti alle mani forse no ma quando litigavamo lo facevamo in modo molto acceso, a tratti violento.
Fu lui, già malato, a fare il tuo nome per portare avanti Amici miei. Come lo giudichi il film?
È un film divertente ma allo stesso tempo deprimente. È un film su persone adulte che vogliono esorcizzare la vecchiaia, la malattia, la morte e allora si comportano da ragazzini.
Qual è un film che non rifaresti?
Ce ne sono tanti, davvero tanti. La mortadella, per esempio. Vedi, io sono un artigiano, ho sempre lavorato molto, andavo un po’ sui grandi numeri; era normale che i miei film non fossero tutti dei capolavori.
Il film di cui vai più fiero?
Almeno una decina, ma se debbo indicare un titolo dico I compagni.
Che ricordi hai di Pasolini?
Non l’ho conosciuto a fondo. Sono andato una volta a fare da testimone a discarico, a Napoli mi sembra, per l’accusa di rapina. L’accusa non stava in piedi: nel momento in cui sarebbe avvenuto il fatto, Pasolini era con me.
Che tipo era?
Una persona difficile, non riuscivi facilmente ad entrare nella sua guardia. Gentile ma schivo, a tratti ombroso. Ma era un uomo e un intellettuale molto interessante.
Che pensi di Moretti?
È un regista che ha trovato una sua cifra stilistica, ben riconoscibile. Non è simpatico ma bisogna riconoscergli un suo stile.
Lea Massari ha detto che tu eri «cattivo, di un cinismo ributtante» (lui ride). Da cosa nasce un giudizio così forte?
Andò così. La chiamai per un film intitolato Proibito, un altro di quelli che non rifarei. Lei non era un’attrice, faceva l’aiuto-parrucchiera, era molto bella e intelligente. Debuttò con quel film. Io ho diretto attrici come Mangano, Magnani, Loren e non ho avuto mai nessun problema. Lei è stata l’unica che mi ha creato un sacco di difficoltà. Era polemica. E certamente io mi comportavo con lei in maniera poco cordiale. Poi ha sfondato. Mi è capitato di incontrarla una volta e mi ha chiesto: «Tu sei quello che mi ha scoperto, perché non mi hai più chiamato?», «Perché mi hai rotto i coglioni!», le ho risposto. Ci abbiamo riso sopra.
Si sente sempre parlare della crisi del cinema. Eppure, la città è piena di manifesti di nuovi film….
Si è parlato sempre di crisi del cinema, dal dopoguerra in poi. Ma in verità sono i film impegnati, di qualità quelli che hanno sempre faticato a trovare i quattrini. Oggi c’è il filone giovanilista, anche il cinema insegue le mode. Io per trovare i soldi per questo film c’ho impiegato tre anni…
Hai fatto Guardie e ladri con Steno…
… ed è stata una stagione felice, quella dei film con Totò…
… i figli, i Vanzina, fanno un cinema un po’ ridanciano.
Un po’ più corrente, diciamo. Per quanto, un paio di anni fa, Il pranzo della domenica sembrò un film garbato, che si poneva anche degli interrogativi. Ma loro, soprattutto Carlo, hanno fatto una scelta precisa. Però conoscono il mestiere, bisogna dirlo.
C’è un autore che preferisci?
Soprattutto quelli del cinema muto. Per me è stato l’avvento del sonoro che ha corrotto il cinema. Ford, Chaplin, Murnau, Lubitsch, Buster Keaton.
E lo scrittore che ami sopra tutti?
Gogol, e specialmente Le anime morte. Un altro scrittore che ho sempre sul comodino è Melville. Poi, amo Marx: «Uno spettro s’aggira per l’Europa…».
Assistiamo oggi a una sorta di evangelizzazione forzata dei non credenti.
Ma il problema è la Democrazia Cristiana che non è mai morta, un cetaceo che sembra arenato…
… la balena bianca…
… appunto, che riprende il largo però!
Mario, che c’è… dietro l’angolo?
Niente, io sono ateo lo sai! A me interessa quello che succede qui. Però restiamo d’intesa che quando sarà, il più tardi possibile, te lo faccio sapere…