Moneta per il lavoro e per l’ambiente

“Il mercato non ci salverà” dalla crisi ambientale in atto. Così sentenziava un editoriale di Giovanni Sartori sul Corriere della Sera del 3 settembre. A Patrizia Sentinelli questa presa di posizione fa piacere. Per questo, in un articolo pubblicato il 7 settembre su Liberazione, ci invita ad abbandonare lo scetticismo vetero-comunista e a collaborare tutti alla individuazione di canali di dialogo con questa borghesia rinnovata, una borghesia evidentemente folgorata sulla via di Damasco del disastro ecologico. Sentinelli è una componente della Segreteria nazionale di Rifondazione comunista. Sarà il caso pertanto di valutare il suo intervento con riguardo alla fase politica, piuttosto che ai massimi sistemi sui quali ha pur generosamente tentato di cimentarsi. Il partito è infatti alle prese con una vera e propria esigenza di quadratura del cerchio: interagire con gli attuali alleati politici senza rendere evanescente l’obiettivo prioritario di sostenere e promuovere le lotte sociali. Tentare di dare un contributo, almeno riguardo a una corretta impostazione del problema, potrà forse risultare di una certa utilità.
Lasciamo dunque da parte i grandi paradigmi della modernità e del piano – i quali richiedono una dimestichezza che forse non è di questi tempi – e poniamoci un problema semplice, immediato, oserei dire di “bassa contabilità”. Supponiamo che il partito intenda farsi carico, attraverso una “inchiesta”, di tutte le istanze di rivendicazione in materia ambientale che provengono dalla società: rifiuti, dissesto idrogeologico, inquinamento atmosferico, caos climatico, eccetera. Procedendo nella raccolta dei dati il partito avrà modo di rilevare che la distribuzione del disastro ecologico risulta ancor più sperequata di quella dei redditi. Ossia, con buona pace del concetto di “esternalità uniformemente diffuse” tra la popolazione, i dati mostreranno che gli output indesiderati del sistema si scaricano sulla classe lavoratrice e sui ceti più deboli della società ancor più di quanto gli output desiderati finiscano per la maggior parte nelle mani di capitalisti e rentiers. “La questione ambientale è dunque questione di classe!” esclamerà qualche vecchio marxista del partito. E in effetti, almeno questa volta, anche i più riottosi verso le categorie del Novecento si vedranno costretti a dargli ragione. Si vedranno cioè costretti ad ammettere che la catastrofe ecologica pende pressoché tutta da un lato, quello dei già deboli ed oppressi.
I problemi tuttavia sono appena cominciati. Supponiamo infatti che il partito affidi a degli esperti il calcolo economico del risanamento ecologico. La lista delle rivendicazioni ambientaliste si tradurrà dunque in un numero, in un costo. E che costo! Si scoprirà infatti che anche volendo trascurare l’ottica di lungo periodo, anche cioè trattando i soli problemi urgenti (quelli che non a caso si traducono in immediate proteste), si tratterebbe di costruire una legge finanziaria apposita ogni anno. Roba da fare rivoltare la Commissione europea, da far gelare il sangue al professor Prodi. A quel punto dunque si aprirà la contesa: bisognerà verificare nell’arena politica in che modo si possa almeno in parte finanziare l’emersione del gigantesco costo ecologico. La borghesia, e più modestamente gli alleati politici che Rifondazione si ritrova, risulterebbero in una simile circostanza “illuminati”?
Avanzo in proposito la seguente congettura. Essi si affretteranno a rammentarci il “primo comandamento” del capitalismo contemporaneo: rispetta i vincoli di “compatibilità” del sistema. Questi vincoli si possono riassumere nei seguenti due imperativi. Primo: il salario per unità di prodotto dovrà risultare decrescente. Vale a dire, le lotte per i rinnovi contrattuali e per il miglioramento dei tempi e delle condizioni di lavoro (anche tempi e condizioni, si badi, sono inclusi nella definizione di salario per unità di prodotto) dovranno essere sempre subordinate all’obiettivo di collocare la produttività, e magari l’inflazione, al di sopra della dinamica del salario monetario. Secondo: la quota di disavanzo pubblico destinata alla spesa sociale (e ambientale) dovrà risultare negativa. Il che significa che non si dovranno generare disavanzi primari, ossia che al fine di erogare gli interessi ai creditori dello Stato, i lavoratori dovranno pagare più tasse di quante saranno le spese sociali ad esse destinati. Potrei rincarare la dose, ricordando che nel cassetto dei nostri alleati c’è tuttora il “piano Ciampi” di abbattimento del debito pubblico, per il quale è previsto un ulteriore allargamento del divario tra i prelievi ai lavoratori e le erogazioni agli stessi. Credo tuttavia sia meglio fermarci qui con il freddo calcolo delle condizioni materiali, per quanto sia ormai palese che esso è indispensabile per evitare l’abusata “chiacchiera”, per impostare cioè ragionamenti politici minimamente sensati.
Dunque, si accettano scommesse riguardo al fatto che solo all’interno di questi vincoli gli alleati politici del Prc concederanno che si possa discutere, di ambiente e di quant’altro. Ciò significa che i profitti e le rendite dovranno esser considerati dei dati esogeni e immutabili, mentre salari, tempi di vita e di lavoro, lo stesso reddito sociale, la scuola e la sanità, i beni comuni in campo sociale e soprattutto ambientale, tutte le rivendicazioni verranno rinchiuse in un “gioco a somma minore di zero” (i vincoli infatti funzionano in modo tale che la quota relativa di risorse ad esse destinata si riduca di anno in anno!). Ossia, quelle rivendicazioni verranno messe in competizione diretta tra loro. E non mi si venga a dire che la rimodulazione delle tasse sulle rendite finanziarie può risolvere un problema di tali proporzioni: quella rimodulazione è benvenuta ma, come direbbe Labriola, noi non siamo cretini.
Francamente credo che Gramsci – citato a sproposito, in questi giorni – non tarderebbe a riconoscere proprio nella subordinazione a questi vincoli di compatibilità una causa determinante dell’ormai stantio bisticcio rosso-verde in seno alla sinistra. Insomma, quel bisticcio rischia ogni giorno che passa di esser sempre più determinato, inasprito, “plasmato” dalla egemonia materiale e ideologica della classe dominante. Basti pensare alla “decrescita” che, come ho detto e ripetuto, solo se correttamente declinata può rappresentare un’espressione utilmente provocatoria. Infatti, mentre in un contesto di crescente socializzazione della moneta e dei mezzi di produzione costituirebbe una opzione assolutamente razionale e praticabile, sotto i vincoli della compatibilità capitalistica attualmente posti sui processi produttivi, sulla tecnica, sugli stessi desideri, inevitabilmente si traduce in una chimera, o peggio in un modo edulcorato di dire “decrescita della sola quota salari”. Il conflitto interno ai rosso-verdi quale prodotto sterile della subordinazione materiale e ideologica ai vincoli del capitale, e dell’assenza conseguente di conflitto di classe. Ecco dunque svelato il vero pericolo che stiamo correndo.
Come uscirne? Propongo in tal senso un semplice esercizio per la congiuntura, per i nostri giorni così oscuri, così poco moderni. L’esercizio è il seguente: che da questo momento in poi tutti si assumano la responsabilità di rendere esplicite le fonti di finanziamento per ogni azione nel campo dell’ambiente, dei beni comuni, della riprogrammazione del pubblico (ma non si deve riacquistare prima di riprogrammare?), e che a nessuno venga in mente l’idea balzana di ricercare quelle fonti nei residui di reddito, di stato sociale e di tempo liberato di cui la classe lavoratrice riesce tuttora ad appropriarsi. Certo, potrebbe darsi che, nel tentativo di imbastire una soluzione “compatibile”, qualcuno si azzardi a mettere in discussione la condizione minima di invarianza del prodotto e del tempo sociale destinato ai lavoratori (in parole povere, che qualcuno evochi la “decrescita” della quota salari, per l’appunto). Ma questo significherebbe automaticamente rassegnarsi a una totale subalternità politica e alla conseguente, fallimentare continuazione della diaspora rosso-verde interna. Poiché voglio credere che non siamo giunti ad un tale livello di autolesionismo politico, confido sul fatto che quella condizione minima verrà da tutti rispettata, e quindi vedrete che l’esigenza di rendersi “incompatibili” ai vincoli di cui sopra diverrà logicamente inevitabile. A quel punto però non si tratterà certo di “dialogare” con i veri o presunti “mea culpa” della borghesia illuminata, ma di scontrarsi con essa ad ogni tavolo delle trattative. Vogliamo cominciare? Bene, basterebbe girare al Corriere e agli alleati il nostro esercizio, e proporre loro di discutere la seguente soluzione: moneta per il lavoro e per l’ambiente. Il che significa: 1) messa sul conto del disavanzo primario a livello nazionale, e del Sistema delle banche centrali a livello europeo, dei costi derivanti da un piano pluriennale di riconversione ecologica dell’apparato produttivo e del territorio, un piano che tuttavia scaturisca da una vera inchiesta, ovvero dalle istanze di rivendicazione provenienti dal “basso”, dalla società; 2) ripristino di un meccanismo automatico di agganciamento dei salari nominali all’inflazione effettiva, in modo da garantire che l’input monetario a favore dell’ambiente non ricada sui lavoratori, e da lanciare la contrattazione alla conquista diretta degli incrementi di produttività. Purché ci si impegni a legare queste due manovre a filo doppio, saremmo finalmente di fronte ad una proposta dialettica, al tempo stesso costruttiva, immediatamente praticabile ma anche “incompatibile” con gli attuali vincoli di sistema. Questa sì che sarebbe una prima, concreta occasione di sintesi teorico-politica tra comunismo e ambientalismo. Vogliamo vedere adesso il professor Sartori che ne pensa?