Accade che la Storia, a un certo punto, sposti l’attenzione dei media su Paesi che normalmente non sono protagonisti della scena mondiale ma, il più delle volte, semplici comparse. Nell’ultima settimana è stato il turno della Moldova, che qualcuno ancora ricorda con l’antico nome di Bessarabia. Le elezioni del 5 aprile hanno fatto da prologo a una pièce rivoluzionaria di difficile interpretazione. È ancora troppo presto per dire se si sia conclusa in un unico atto, o se al primo ne seguiranno altri che porteranno a un finale in genere scontato: un cambiamento del risultato delle urne. Un risultato dichiarato legittimo dalla Commissione elettorale centrale, democratiche e libere le operazioni di voto da parte degli osservatori internazionali, quelli dell’Osce, presenti nel Paese. In tal caso non si potrebbe guardare dubbiosamente a chi parli di putsch e non di rivoluzione.
Dai banchi alla piazza. Dal 6 aprile a oggi è successo di tutto. Come un lampo la gente è scesa in strada, prima 4 mila, poi 6 mila, 10 mila, fino a 15 mila. L’adunata è stata data con ogni mezzo e forse rimarrà nella storia per essere la prima a essere stata alimentata telematicamente, attraverso i social networks: facebook, twitter, sms. Strumenti utilizzati e amati per lo più da giovani e giovanissimi; e infatti un altro aspetto, inedito, è che tra le prime file dei manifestanti ci fossero degli adolescenti, ragazzi tra i 14 e i 17 anni che appena usciti da scuola si sono precipitati davanti al Parlamento in boulevard Stefan Cel Mare, la strada principale di Chisinau lungo la quale sono disposti tutti i palazzi del potere.
Sinistri richiami. Il Partito Comunista Moldavo (Pcrm) ha conseguito una vittoria schiacciante, avendo raccolto il 49,48 percento dei consensi, a fronte dei sondaggi che gli attribuivano un 35 percento. È proprio sulla base di questa ampia forbice che i tre partiti di opposizione accreditati nel loro insieme intorno al 35 – 36 percento hanno avanzato il dubbio che sul voto sia caduta l’ombra dei brogli. Ma mentre il leader del Partito Liberal Democratico (Pldm), Vlad Filat, dal suo podio improvvisato davanti al Parlamento sfidava i comunisti chiedendo il riconteggio dei voti o protesta a oltranza, dalla piazza spuntava chi con un megafono gridava: “Noi nu avem nevoie de Parlament, de Presidente, de Guvern! Noi to ate astea le avem la Bucarest!” (Noi non abbiamo bisogno del Parlamento, del Presidente, né del Governo! Tutto questo noi l’abbiamo già a Bucarest). La voce metallica dietro il megafono era di tal Ilie Bratu, ex deputato, che ha ricoperto anche incarichi governativi, e presidente del Movimento Unionista della Moldova. Da quel momento è tornato a galla l’incubo di chi è devoto alla indipendenza e alla sovranità della Moldova. Ancora una volta la Storia torna protagonista.
Una volta, la Bessarabia. Quel lembo di terra, alle porte dell’Unione Europea, nel corso dei secoli è stato tirato come un lenzuolo da ogni suo angolo: nel Medio Evo era parte del Principato di Moldavia, per poi passare nell’Ottocento sotto il controllo dell’Impero Russo – con il nome di Bessarabia – fino al 1917. Dopo la caduta degli zar la Moldova , nel 1918, si unì alla Romania, fino a quando il patto Molotov-Ribbentrop con la regia di Hitler e Stalin non costrinse Bucarest a cedere all’Unione Sovietica la terra a est del fiume Prut che assunse lo status di Repubblica Sovietica (Rss Moldova). Nel 1989 la Storia stravolge le carte sul tavolo dell’emisfero orientale e la Moldova nel 1991 proclama la sua indipendenza. Si trattava di una nazione giovane che per la prima volta si trovava a decidere della propria sorte. C’era chi continuava a guardare con nostalgia verso Mosca, chi credeva nell’entità moldava e chi non vedeva l’ora di correre nuovamente sotto la protezione di Bucarest. Romeni e moldavi hanno in comune un vasto patrimonio culturale e soprattuto la lingua. L’attrazione esercitata da Bucarest era irresistibile (ma i fatti degli ultimi giorni dimostrano che si è perfino rafforzata, grazie al fatto che la Romania è nell’Unione Europea). Sull’onda di questa scia annessionista, nacque un problema che tuttora Chisinau si sta trascinando: la Transnistria, a maggioranza russofona, temendo la longa manus di Bucarest dichiarò a sua volta l’indipendenza e come uno stato indipendente, sebbene non riconosciuta da nessun altro Paese, vive.
Gli estremi del nazionalismo. Dal momento in cui la linea di una Moldova sovrana e indipendente ha avuto la meglio, si è fatto tutto il possibile per tracciare una linea di demarcazione netta tra i moldavi e i fratelli (o sarebbe meglio dire cugini) romeni; fino a cadere anche nel grottesco, quando nel 2003 viene pubblicato il dizionario Moldavo-Romeno/Romeno-Moldavo del linguista Vasile Stati. Il dizionario ha scaturito l’ ilarità anche tra gli stessi moldavi e il direttore dell’Istituto Linguistico Ion Barbuta lo definì, all’epoca, “un’assurdità, uno strumento al servizio della politica”.
Lo strappo. Ma tornando all’attualità, i rapporti tra Romania e Moldova negli anni si sono via via incrinati. Oggi come non mai Bucarest e Chisinau sono molto lontani. Dopo che alcuni giovanissimi manifestanti hanno issato la bandiera della Romania sul pennone del Parlamento, è arrivato durissimo il j’accuse del presidente Vladimir Voronin: “Non c’è umiliazione più grande per un paese che vedere la bandiera di un’altra nazione messa sul palazzo del Parlamento. Dietro la rivolta c’è la Romania “. Per la prima volta le frontiere sono state chiuse, Chisinau ha richiamato il suo ambasciatore a Bucarest e ha espulso quello romeno dalla Moldova, il treno internazionale “Prietenia” (Amicizia), che fa la spola tra Bucarest e Chisinau, è stato sospeso e dal 9 aprile è stato introdotto il regime dei visti per i cittadini romeni. Il presidente della Romania Traian Basescu ha negato ogni coinvolgimento, ma la tv di stato romena ha coperto la manifestazione con la titolazione “Rivoluzione a Chisinau”; Vlad Filat, tra i primi a chiedere movimenti di piazza, si è dissociato dalle violenze, ma ribadisce di avere le prove di brogli elettorali. Questo non basta a far correre, velocissime, le voci sui forum di un complotto moldavo con la regia di Bucarest. Secondo quanto appreso informalmente da PeaceReporter, tra i fomentatori ci sarebbe anche un certo Anatol Stati, un miliardario molto vicino a George Soros (per molti il direttore occulto delle rivoluzioni ‘colorate’). L’agenzia moldava Omega riferisce che suo figlio Gabriel è stato arrestato sul territorio ucraino mentre “cercava di scappare con urgenza dalla Moldova”.
La ‘pedopolitica’. Le tesi di chi sostiene che si sia consumato – o si stia consumando – un tentato golpe annessionista si basano sull’analisi degli eventi. Tutto sarebbe stato orchestrato alla perfezione: nelle prime file sarebbero stati messi dei ragazzini contro i quali la polizia non ha potuto opporre resistenza per evitare che la situazione degenerasse; dietro, nelle seconde linee operavano i più violenti. Quando sono state fatte le irruzioni nel Parlamento e nel Palazzo Presidenziale (entrambi messi a ferro e fuoco), tutti sapevano come muoversi e dove andare. Un arguto e coraggioso web user per condannare la strumentalizzazione degli adolescenti nei gruppi di rivolta, ha definito le menti della rivolta come dei pedopolitici.
L’uro. Da ovest, l’Unione Europea sta guardando con attenzione a quanto sta succedendo alle porte di casa sua e ha invitato alla cessazione delle violenze e il governo moldavo a ripristinare i normali rapporti diplomatici con la Romania, un suo paese membro. Da est, la Russia chiede che il risultato delle urne venga rispettato e un membro del parlamento russo, Konstantin Zatulin, ha dichiarato che qualora il governo legittimo dovesse essere rovesciato, la Duma metterà all’ordine del giorno, immediatamente, il riconoscimento della repubblica separatista di Transnitria. A Chisinau, i difensori della sovranità e indipendenza moldava guardano con trepidazione alla propria bandiera, sperando di non estinguersi come l’uro ritratto sullo stemma moldavo, un grande bovino che si estinse agli inizi del 1600.