Modelli di transizione fra prudenza e audacia

Capita a tempo il libro di Carmelo Adagio e Alfonso Botti sulla Storia della Spagna democratica. Da Franco a Zapatero (Bruno Mondadori editore, pp. 192, euro 18). Perché di Spagna si parla molto in questi tempi, dopo la brusca svolta impressa dal premier José Luis Rodríguez Zapatero a partire dal 14 marzo 2004 (il ritiro immediato dall’Iraq, la legge sui matrimoni gay, i tempestosi rapporti con la chiesa cattolica sull’insegnamento della religione a scuola, la legalizzazione degli immigrati, la ridefinizione dell’organizzazione territoriale in senso federalista e il persistente dinamismo economico in netta controtendenza con il resto d’Europa). E perché più ancora se ne parlerà di qui alla fine dell’anno per via, quantomeno, del referendum sullo nuovo statuto di Catalogna in programma proprio oggi, delle prossime elezioni catalane in autunno e soprattutto per l’audace ma inevitabile tentativo di risolvere – e attraverso un negoziato politico – il problema dei Paesi baschi, il problema più intricato di quella «questione nazionale che – dicono a ragione gli autori – resta il principale nodo irrisolto della transizione».
Dopo la morte del dittatore
La transizione spagnola che il volume racconta copre i trent’anni che vanno dalla morte del dittatore Francisco Franco, il 20 novembre del ’75, fino alla fine del 2005. Il passaggio dalla dittatura franchista alla democrazia è stata una galoppata per molti versi straordinaria e affascinante, sovente citata a modello. Anche se poi, a ben vedere, è un modello che – per quanto invocato in altri casi – non ha retto all’urto della coscienza civile (e per fortuna perché altrimenti il Cile dei Pinochet e l’Argentina dei Videla non avrebbero dovuto mai rendere i conti). Ma per la Spagna ha funzionato, anche se non è stato gratis e qualcuno ha dovuto pagare il prezzo di quel modello basato prima di tutto sul binomio amnistia-amnesia, sulla rinuncia dei comunisti (e non solo) a qualsiasi ipotesi di «rottura controllata» della continuità e sulla moderazione imposta ai sindacati e alla classe lavoratrice. La singolarità della transizione spagnola morbida – ed efficace – da molti (e non innocenti) è stata spiegata come una «ipotesi evolutiva» del franchismo. Come se fosse stato «lo stesso Franco a predisporre l’evoluzione (o addirittura l’approdo) alla democrazia dalla sua dittatura» per avere imposto il giovane Juan Carlos di Borbone (dimostratosi poi un solido referente democratico specie – anche se con qualche ritardo di troppo come il libro non manca di ricordare – in occasione del tentativo di golpe del colonnello Tejero del febbraio 1981), come se fosse da attribuire allo stesso caudillo «il merito di aver creato una classe media capace di ancorare solidamente il paese alla democrazia». In realtà il dittatore si dimostrò fino agli ultimi giorni della sua vita troppo lunga l’uomo astuto ma mediocrissimo e sanguinario dipinto magistralmente dal compianto Manuel Vázquez Montalbán nel suo Io, Franco (Frassinelli, 1992) e il libro di Botti e Adagio spazza via questi «giudizi senza fondamento» attribuendo le peculiarità uniche della transizione alle «trasformazioni socioeconomiche degli anni sessanta, con la conseguente straordinaria crescita della società civile».
Nella premessa i due autori si schermiscono rispetto al titolo definendolo «presuntuoso». Nel caso lo sia, è una presunzione ragionevole perché si tratta del primo libro in Italia che ricostruisce organicamente con ricchezza di fonti, precisione dei dettagli e una impostazione del tutto condivisibile, i primi trent’anni filati di democrazia – un evento inedito per la Spagna. Non solo dal punto di vista politico ed economico, ma anche da quello culturale e sociale che è stato forse ancor più clamoroso (dalla movida madrilena fino al cinema di Almodóvar, da Vázquez Montalbán fino a Javier Cercas), facendo della Spagna uno dei paesi più brillanti, vivaci e stimolanti d’Europa e del mondo. D’altra parte sia Botti sia Adagio non sono neofiti. Alfonso Botti, docente di storia contemporanea e storia d’Europa alla facoltà di sociologia dell’università di Urbino, ha una vera passione per la Spagna su cui ha già scritto diversi libri (ricordiamo nel 2003 l’eccellente La questione basca), e dirige la rivista «Spagna contemporanea», mentre Carmelo Adagio è autore fra l’altro di un testo sulla dittatura di Primo de Rivera.
Rileggersi gli avvenimenti degli ultimi trent’anni è, per chi ha seguito le vicende spagnole, come rivedere un film di cui a volte si è dimenticato qualche fotogramma rimettendo a fuoco eventi e personaggi (unico piccolo appunto, l’inserimento delle tabelle sui risultati elettorali, che per quanto utilissime rompono la fluidità della lettura). Dal ruolo preponderante del centrista Adolfo Suárez nella prima fase della transizione, pericolosamente ma fugacemente interrotto dal golpe militare del 1981, al primo dei quattro governi socialisti di Felipe González nel 1982 che segnò la fine della transizione; dal liberismo quasi thatcheriano in economia e dal ritorno pieno nell’ortodossia occidentale-atlantica-europeista (le penose acrobazie nel referendum del 1986 sull’adesione alla Nato) dei primi due governi del Psoe alla «svolta socialdemocratica» degli ultimi due; dall’apogeo socialista dei primi anni Novanta, simboleggiato dalle olimpiadi di Barcellona e dall’Expò di Siviglia alla «questione morale» – corruzione sfacciata e guerra sporca anti-basca dei Gal – che portò nel marzo del ’96 alla «dolce sconfitta» del Psoe e all’«amara vittoria» del Partido Popular di José María Aznar contrassegnata, come il libro documenta, da una marcata continuità rispetto ai governi felipisti sia in politica economica sia in politica internazionale; dal trionfo aznarista del marzo 2000 fino al suo inatteso tracollo del 14 marzo 2004, dovuto in larga misura, più che al terribile attentato islamista di tre giorni prima nei treni di Madrid, alla «incoerenza» (o peggio) di Aznar, «fautore dell’esistenza di un unico terrorismo globale» (quindi, prima di tutto, quello basco di casa) e alla «sequela di reticenze e di menzogne» dei suoi ministri; dall’ingresso «tra la sorpresa generale» nell’euro-zona nel ’98 all’entrata a vele spiegate nell’abbraccio mortale Bush-Blair (la foto delle Azzorre del marzo 2003, la partecipazione convinta alla guerra d’Iraq). Con l’avvento di Zapatero la storia per il momento si confonde con la cronaca.
Trent’anni dopo la Spagna è «un paese che non cessa di sorprendere» e non solo per i suoi indici di crescita economica nettamente superiori a quelli medi dell’Unione europea. Un paese che ha saputo saputo sfruttare bene nei vent’anni successivi all’adesione alla Cee, nel 1985, i 175 milioni dei fondi strutturali elargiti dall’Europa per progredire e portarsi dal 68 per cento del reddito pro capite europeo al 90 per cento e più di oggi.
Una ostinazione furba ma cieca
In questi trent’anni Suárez ha significato la transizione morbida, prudente ma decisa, dal franchismo alla democrazia. González ha rappresentato, con il suo social-liberismo e il suo europeismo, la modernizzazione economica e politica. Aznar ha avuto il merito «di aver condotto in porto il rinnovamento della destra spagnola, trasformandola in una compagine politica moderna, democratica, liberista in economia». Per un paradosso solo apparente, a determinare la caduta – politica e personale – di Aznar, in fin dei conti è stata l’Eta basca, per l’ostinazione cieca e «furba», dopo l’11 settembre newyorchese, «di saldare la lotta al terrorismo interno con la lotta al terrorismo internazionale» e di «trasferire sul piano internazionale un problema che era e resta eminentemente interno, basco e spagnolo».
Zapatero, nei suoi primi due anni di governo è stato finora l’uomo dell’audacia, non nella politica economica perché l’asse social-liberista non è stato quasi toccato, ma nel tentativo di imboccare l’unica via d’uscita possibile all’annoso problema basco – una soluzione «all’irlandese», pur con tutti i distinguo del caso – e nella consapevolezza dei prezzi politici da pagare. Un’audacia che in realtà significa senso comune: diritti civili, Stato a-confessionale al posto del frusto nacional-catolicismo franchista, autonomie territoriali per fare della Spagna quella nación de naciones che è sempre stata storicamente se non politicamente, riorientamento internazionale (in particolare in America latina) sulla lunghezza d’onda europea. Un disegno che appare abbastanza organico e portato avanti con ferrea volontà politica nascosta dietro il sorriso mite e una simpatia personale che fa da contraltare all’antipatia naturale di Aznar e all’arroganza di González. Per questo forse l’unico punto di dissenso con le tesi del libro di Botti e Adagio sta proprio nella sua conclusione, quando gli autori scrivono che Zapatero «dà a volte l’impressione di governare a colpi di maggioranza, di non fare tutti gli sforzi necessari alla realizzazione del più ampio consenso sulle riforme individuate come necessarie, di affrontare nodi di enorme rilievo con una certa disinvoltura e a volte, forse, con improvvisazione». Più di uno Zapatero che non cerca il consenso, è il Pp di Mariano Rajoy a dare l’impressione di essere incapace di assumere la sconfitta inaspettata del marzo 2004 e votato solo a una linea del no preconcetto e rabbioso.
Ma queste sono sottigliezze, ci sarà tempo per vedere come va a finire.