Missioni all’estero primo sì. Ma al Senato è bagarre

«Prodi dittatore?». «Ma non vi sembra un po’ troppo! E Berlusconi?». E si scatena il putiferio. E’ dai banchi del Carroccio che compare la scritta che infiamma l’atmosfera. Chiti ha appena parlato e annunciato la doppia fiducia sul Ddl delle missioni che ha scosso questi ultimi due mesi di dibattito politico.
La tensione sale quando Massimo Polledri, senatore “lumbard” si avvicina ai banchi dei Ds, con fare a dir poco bellicoso. Verrà placcato dai commessi, con mossa quasi rugbistica, altrimenti… Si apre così lo scenario sull’aula di palazzo Madama, con una seduta ad altissima tensione. E si è solo alle prime, primissime battute del match che terrà sul filo per tutta la giornata l’Unione. Si può ben dire che solo alla fine, la maggioranza potrà infine tirare un sospiro di sollievo. Termina con un “1 a 0” per l’Unione la prova più dura dell’aula (oggi si replica per il voto sull’intero provvedimento, ndr). Nonostante i colpi bassi, le mosse a sorpresa, la conta dei numeri. Nonostante la Cdl abbia tentato fino alla fine di incunearsi nelle smagliature della maggioranza annunciando solo in prossimità della votazione l’intenzione di non essere presenti in aula. «Il nostro – diranno i capigruppo della Cdl Renato Schifani(Fi), Altero Matteoli (An), Francesco D’Onofrio (Udc) e Roberto Castelli (Lega) attraverso una nota congiunta – è un voto contro il governo ma non contro il rifinanziamento delle missioni». Nonostante la richiesta di verifica del numero legale che arriva solo alla fine di seduta, dopo la proclamazione del voto, dai banchi di Alleanza Nazionale, accaniti a far valere le “loro” ragioni contro le altre, espresse tra gli altri da Sodano e Valpiana, e con l’annuncio di Schifani che contesta l’intera votazione di non lasciare l’aula. Per oggi è previsto l’esito finale di una partita in cui nulla è stato scontato.

Anche il dissenso, se pur legittimo, ha pesato e non poco, soprattutto per un ramo del parlamento – il Senato – in cui la tenuta dell’Unione si gioca su pochissime pedine in più (esclusi i senatori a vita, ndr). E quando la “chiama” da parte di Marini ha inizio, certo un brivido corre dietro la schiena di più di qualcuno. Si guarda ai “dissenzienti” ma anche al banco vuoto di Cossiga che aveva fatto sapere che non avrebbe partecipato a un voto pasticciato con alcuna intenzione, comunque, di voler fare cadere il governo. E si guarda anche a Rifondazione. I “dissenzienti” hanno visto accolti sette dei loro otto ordini del giorno, con l’ultimo trasformato in raccomandazione. Si dicono soddisfatti. Di prima mattina diramano una nota in cui annunciano un raddoppio con la costituzione del “gruppo dei 16” (e alla Camera si sa che si sta lavorando nella stessa direzione, cercando nuove adesioni, un elenco completo ancora non c’è ma sembra già certa l’adesione della ambientalista di sponda Ds Fulvia Bandoli, ndr). E oltre ai sei senatori Verdi (Mauro Bulgarelli, Loredana De Petris, Anna Donati, Marco Pecoraro Scanio, Natale Ripamonti e Gianpaolo Silvestri), due del Pdci (Fernando Rossi e Dino Tibaldi), uno della Svp (Oskar Peterlini), una dell’Italia dei Valori (Franca Rame), oltre a Massimo Villone (Ds) si contano cinque senatori di Rifondazione (Josè Luis Del Rojo oltre a Fosco Giannini, Claudio Grassi, Gigi Malabarba e Franco Turigliatto). E il documento che fa scoppiare la polemica è proprio quell’ultimatum posto alla fiducia. «Voteremo sì – scrivono “i sedici” – ma ribadiamo il nostro no alla missione militare italiana in Afghanistan, che abbiamo sempre contrastato (anche con il voto contrario per chi di noi era in Parlamento) fin dal novembre 2001, fedeli ai principi irrinunciabili contenuti nell’articolo 11 della Costituzione». In sostanza “nessun bis”. E proprio Rifondazione non ci sta. «Perché – replicano a più voci, da Rina Gagliardi a Salvatore Bonadonna per finire con l’ultimo intervento di Lidia Menapace – non si possono non vedere i significativi passi in avanti compiuti dal governo e proprio in politica estera». La domanda resta appesa ma il senso è esattamente questo: sicuri che si sarebbe ottenuto altrettanto se pur ancora poco con un governo di centrodestra? Non ci sta soprattutto – conferma in una nota la presidenza del gruppo Rc al Senato a firma Russo Spena, Gagliardi, Sodano – a che si riproponga «un’infondata distinzione tra senatori presunti “pacifisti” e altri che evidentemente non vengono considerati tali». Per quanto riguarda il gruppo del Prc – precisa il documento «si tratta di una distinzione assurda e inaccettabile, che credevamo superata dopo il limpido confronto degli ultimi giorni e che certo non giova al ripristino dei rapporti di fiducia e lealtà all’interno della nostra comunità politica. Ribadiamo che tutto il Prc considera necessario il totale disimpegno dell’Italia dalle operazioni militari in Afghanistan. Per questo – sottolineano – ci siamo battuti e ci batteremo ancora. Riteniamo tuttavia superficiale e fortemente errato affermare che la risposta negativa del nostro paese alla richiesta Nato di maggior impegno militare in termini di truppe e di mezzi bellici sia un elemento irrilevante. Al contrario si tratta di un primo passo concreto nella direzione del pieno disimpegno in Afghanistan e della discontinuità con la politica estera di Berlusconi». «Prendiamo tuttavia atto con soddisfazione – si legge infine – della scelta, confermata da tutti i firmatari del della scelta, confermata da tutti i firmatari del documento, di votare la fiducia al governo Prodi, garantendo così l’autosufficienza della maggioranza». E questo sarà il nodo del dibattito della prossima direzione politica prevista per lunedì.