Missione pericolosa

Può una forza di interposizione delle Nazioni Unite impedire o almeno ritardare quel secondo round dello scontro fra Israele e Hezbollah che entrambi i contendenti danno per scontato? O è più probabile che ne sia vittima? Prima di inviare un robusto contingente italiano nel Libano meridionale, dovremmo rispondere a queste due domande. Curiosamente, tali interrogativi non sembrano troppo occupare la classe politica italiana. In attesa del dibattito parlamentare, ci si è variamente richiamati all´articolo 11 della Costituzione piuttosto che alla Carta delle Nazioni Unite, si è rilevato il ritorno in termini di prestigio della nostra partecipazione all´Unifil plus, si sono spese – non solo a sinistra – parole di sostegno al nuovo attivismo del governo in una regione per noi così strategica. Ma non si è affrontata di petto la questione centrale: perché andare, a quali costi e con quali benefici prevedibili.
Domande tanto più urgenti quanto evidente è il disimpegno delle maggiori potenze rispetto a una missione che pure esse stesse hanno battezzato. In attesa delle riunioni europee ed onusiane dei prossimi giorni, in cui ciascuno dovrebbe scoprire le sue carte, conviene partire dai dati attuali. I quali dimostrano che i paesi che contano tendono a rispondere no al primo quesito e sì al secondo.
Se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si barricano dietro un assoluto non possumus, se l´impegno militare tedesco si fermerà al largo delle coste libanesi, se la Francia esita a inviare un contingente poco più che simbolico, se alcuni islamici filoccidentali recalcitrano, sarà forse il caso di chiedersi le ragioni di una ritirata così corale. Molto semplicemente, nessuno vuole rischiare la vita dei propri soldati e il proprio prestigio in una missione considerata militarmente troppo rischiosa e politicamente poco remunerativa. Mai come in questo caso vale lo slogan “armiamoci e partite”.
In attesa di conoscere le decisioni finali intorno alla consistenza e alle regole d´ingaggio della “nuova” Unifil – che saranno interpretate piuttosto liberamente sul terreno dai comandanti e dai singoli contingenti nazionali – tre dati paiono ineludibili, se si intende valutare sobriamente il senso dell´impresa.
Primo: la missione dei caschi blu può servire a disinnescare la crisi se parallelamente si attiva un´ancora più massiccia iniziativa diplomatica in grado di convincere i protagonisti a rinunciare alla resa dei conti. Ora, né Israele né Hezbollah sono disponibili ad intese anche solo interinali. Nemmeno i loro “padrini” geopolitici, Stati Uniti e Iran, sembrano interessati a negoziare. Quanto alle potenze europee – Italia inclusa– possono al massimo attribuirsi funzioni ancillari o cerimoniali. Tutte le micce restano sparse sul terreno, in attesa che una scintilla le accenda.
Resta la speranza che Israele e Hezbollah non siano pronti per l´immediata ripresa delle ostilità. E che un lungo rinvio – molti mesi o meglio qualche anno – del secondo tempo della partita favorisca il drastico miglioramento del clima regionale e globale. Ma non se ne intravedono i presupposti.
In queste condizioni, la missione militare in Libano serve a surrogare una strategia politica, non a servirla. E quando la forza – o peggio, l´esibizione di una forza che non si intende impiegare – da mezzo diventa fine, i guai sono assicurati. Tanto più se questa forza è debole, com´è e probabilmente resterà Unifil.
Secondo: pur accettando la possibilità di una lunga tregua, in che modo Unifil potrebbe contribuirvi? L´obiettivo della missione è di impedire che Hezbollah usi il Libano meridionale per scatenare altre provocazioni contro Israele e per colpirlo con i suoi razzi. Favorendo così l´instaurazione di una qualche forma di sovranità di Beirut sulle sue province meridionali (nel presupposto – molto teorico – che il Libano sia uno Stato). Ma sia Olmert che Nasrallah (e i suoi sponsor iraniani) finora usano la tregua per meglio attrezzarsi alla fase successiva dello scontro, che potrebbe allargarsi alla Siria e quindi allo stesso Iran. Se la guerra riprende, che cosa può fare Unifil? Sgombrare il campo al più presto, cercando di limitare le perdite. Oppure qualcuno pensa di utilizzare i nostri soldati e quelli altrui per combattere Hezbollah o Tsahal, a seconda di chi fosse considerato responsabile dall´Onu di aver infranto il cessate-il-fuoco?
Terzo: il cosiddetto esercito libanese, che dovrebbe schierare 15 mila uomini a fianco di altrettanti caschi blu, è pura finzione. A indossare la divisa del paese dei cedri sono poche migliaia di soldati, male armati e peggio disciplinati, divisi in reparti che rispondono alle rispettive comunità di riferimento: cristiani, sunniti, sciiti, drusi. E in cui Hezbollah dispone di crescente influenza. Se un esercito libanese fosse esistito, avrebbe difeso il territorio del suo paese contro l´invasione israeliana, o l´avrebbe prevenuta disarmando per tempo Hezbollah.
Queste osservazioni dovrebbero farci riflettere sul nostro impegno militare in Libano. Appare particolarmente azzardato valutare la prospettiva del comando italiano come una medaglia da esibire, omettendo che sarebbe la conseguenza del rifiuto altrui ad assumersi tale responsabilità. Perché mai dovremmo compiacerci di accettare ciò che i nostri alleati disdegnano? Non sarebbe più utile capire perché sarebbero inclini a lasciarci le chiavi di un appartamento dal quale vogliono tenersi alla larga, o al più frequentare con una token army?
A meno di non autoattribuirci qualità taumaturgiche e di non cadere vittime della nostra stessa retorica, converrebbe evitare di impelagarci in una spedizione militare che appare, prima che pericolosa, inutile. Anche perché le nostre Forze Armate non sono una risorsa infinita cui attingere liberamente, ma soffrono il duro logoramento delle missioni in corso. Il che ci impone fra l´altro di riflettere sulla qualità dei mezzi di cui le nostre truppe potrebbero disporre. Sono adeguati a un terreno tanto infido? Non mandiamo i nostri ragazzi allo sbaraglio?
Ma ammettiamo che prevalga l´idea di dover restare fedeli a un impegno così solennemente preso dal nostro governo. Per ragioni di immagine e di politique politicienne che non si convengono agli statisti ma cui in democrazia è difficile sottrarsi. In tal caso, ci si potrebbe almeno conformare alla linea minimalista di quei partner che paiono disponibili a spendere qualche soldato per il Libano. Centinaia, non migliaia di uomini. Nulla più, nulla meno.
Un analista israeliano, Dan Schuefter, ha scritto che gli storici ricorderanno l´ultima campagna libanese con una nota a piè di pagina nel capitolo sul confronto strategico fra Israele e Iran. Della missione Unifil – temiamo – non vi sarà traccia nemmeno in quella nota.