È comprensibile, benché paradossale, che quanto più una situazione è complessa tanto più forte si manifesti l’esigenza della chiarezza. Il bisogno di chiarificazione induce a semplificazioni. E così analisi e giudizi finiscono per perdere di vista la complessità.
È ciò che accade nella discussione sulla missione in Libano. Oggi, a dispetto di chi vorrebbe formule “nette”, non è possibile disegnare quadri univoci: non è condivisibile né la certezza di chi si dice sicuro che “si va a fare la guerra” né quella opposta di chi dà per certo che siamo dinanzi ai primi vagiti della “pace perpetua” in Medio Oriente.
Vi sono aspetti indubbiamente positivi, a cominciare dal fatto che questa missione è profondamente diversa non solo da quelle nelle quali il governo Berlusconi ha coinvolto l’Italia ma anche dalle guerre “democratiche” e “umanitarie” appoggiate dal centrosinistra negli anni ’90. È diversa in primo luogo per il suo scopo e per il contesto regionale: l’esito della guerra ha visto la vittoria della resistenza libanese e la sconfitta di Israele e oggi la missione è richiesta da tutte le parti sul terreno. È diversa questa missione anche per ciò che attiene al contesto generale, che vede da un lato la ripresa d’iniziativa, potenzialmente positiva, delle Nazioni Unite e dall’altro le evidenti difficoltà dell’unilateralismo anglo-americano. Riconoscere i rischi (come è giusto) non toglie che l’unica alternativa oggi all’interposizione sarebbe l’immediata ripresa delle ostilità e il divampare di una guerra verosimilmente più disastrosa delle precedenti.
I rischi, appunto. In primo luogo la risoluzione non contiene clausole relative all’occupazione israeliana delle fattorie di Shaba (così come nulla dice del Golan e della West Bank), mentre legittima una iniqua asimmetria nella misura in cui destina la totalità delle forze di interposizione in territorio libanese. Per quanto concerne il ruolo di Hezbollah tutti i paesi che partecipano alla missione lo considerano un affare interno al Libano, ma Israele pretende il disarmo delle milizie e ha già ripetutamente dimostrato di non voler accettare soluzioni diverse. Vi è poi il problema dello schieramento di caschi blu lungo il confine con la Siria e, in prospettiva, la questione del comando della missione. E’ bene evocare – per dichiararlo sin d’ora inaccettabile – il rischio che possa ripetersi la vicenda delle guerre nei Balcani e quella del colpo di mano con cui tre anni fa la Nato si impossessò del comando di tutte le operazioni in Afghanistan, trasformando la missione Isaf in una guerra americana di aggressione e occupazione.
Come si vede non sarebbe ragionevole ridurre l’insieme di questa trama di problemi ad uno slogan. Del resto proprio l’ambiguità che la caratterizza potrebbe rivelarsi proficua poiché racchiude potenzialità che sta alla politica mettere a frutto. Le condizioni in cui la missione sta maturando tengono aperta la possibilità di sviluppi positivi per il conflitto israelo-palestinese (con l’estensione dell’intervento di interposizione lungo il confine di Gaza e della Cisgiordania) ma anche di passi significativi in direzione dell’unica sua accettabile risoluzione, che implica la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano. Il fatto che oggi Israele si veda costretto a riconoscere l’autorità dell’Onu è una circostanza che rende insostenibile la sua violazione di oltre settanta risoluzioni internazionali, ponendo all’ordine del giorno la questione del ritiro di Israele dai territori palestinesi occupati nel 1967.
Sarà fondamentale la concreta volontà delle parti e quella dei paesi che partecipano alla missione. Per quanto concerne l’Italia, la responsabilità del governo attiene anche alla sorte della nostra partecipazione alla missione in Afghanistan. A connettere quest’ultima alla missione in Libano vi sono problemi di bilancio: posto che sarebbe inaccettabile che gli ingenti costi di Unifil gravassero sui già magri capitoli della spesa sociale, ne segue che il governo dovrebbe decidere di ritirare le nostre truppe dall’Afghanistan. Che questo venga sostenuto oggi anche da chi lo scorso luglio votò la proroga della missione militare dimostra la giustezza della battaglia di chi invece vi si oppose, e autorizza la speranza che tale battaglia venga fatta propria da un più vasto schieramento di forze. A raccomandare il ritiro immediato dall’Afghanistan vi sono però anche ragioni politiche: il ritiro delle nostre truppe gioverebbe, come ha osservato Cesare Salvi, alla credibilità della missione di interposizione in Libano poiché impedirebbe di confonderla con qualsiasi “missione occidentale” di guerra.
Siamo di fronte, come ha opportunamente sottolineato Tommaso di Francesco, ad un quadro estremamente complesso. Ma non bisogna avere paura delle contraddizioni. Ritrarsene non giova a risolverle. Occorre invece, con consapevolezza e coraggio, farsene carico e intervenire in esse senza perdere di vista né rischi né opportunità.