«Mio figlio Giovanni da Nassiriya è tornato con il cancro»

«Vogliono gettare acqua sul fuoco. Ma io non glielo permetto. Finché potrò non glielo permetterò. Voglio che questo fuoco si tramuti in un incendio che divori tutte le menzogne sull’uranio impoverito che uccide i nostri figli». E’ il 20 aprile del 2004 quando Salvatore Pilloni alza il telefono e racconta a Liberazione la tragedia che sta vivendo suo figlio Giovanni, maresciallo, capo reparto officina del gruppo elicotteri della Marina a Grottaglie (in Puglia). Giovanni, oggi 38 anni, è stato il primo soldato italiano a tornare con un tumore da Nassiriya.
«Si è accorto di essere malato al suo rientro in Italia. Era due anni che non lo vedevo perché era sempre impegnato in queste missioni all’estero. E lì, in ospedale, mi ha detto subito: papà, sono un po’ preoccupato, da qualche giorno ho come una piccola lenticchia sul testicolo destro. L’ho accompagnato dall’urologo che gli ha dato una medicina in bustine. Ma nei giorni successivi la situazione è peggiorata rapidamente. Il testicolo continuava a ingrossarsi e Giovanni ha deciso di andare a farsi vedere. I medici sono stati espliciti. Gli hanno detto: lei ha un cancro e dobbiamo operarla d’urgenza. Così gli è stato asportato il testicolo destro».

Giovanni e suo padre oggi sono a Roma per testimoniare le aberrazioni della guerra e dell’uranio impoverito. Salvatore – come aveva promesso due anni fa a Liberazione – non perde occasione per denunciare «i devastanti effetti collaterali delle politiche guerrafondaie sulla vita delle persone». Nonostante le gambe che «non funzionano bene» e gli occhi «ormai persi» questa mattina non poteva mancare: «Mio figlio sta sempre peggio. C’è bisogno di sapere. Perché si è ammalato? Perché è stato abbandonato dai superiori? C’è bisogno di far sapere. Quando si è saputo di Giovanni noi siamo stati contattati da tanti giovani, malati anche loro. Molti avevano semplicemente preso servizio nelle basi e nei poligoni sardi e molti sono già morti».

Le domande di Salvatore trovano risposta nella stessa testimonianza del figlio Giovanni, che l’anno scorso ha trovato coraggio e voce per raccontarla a Liberazione: «A Tallil, aeroporto di Nassiriya, alloggiavamo negli hangar bombardati durante la guerra del Golfo, tra topi e scorpioni. Attorno al nostro accampamento, ordigni e cimiteri di velivoli. Accanto a quegli elicotteri distrutti passavamo tutti i giorni. Non eravamo dotati di alcuna protezione».

Giovanni ha sulle spalle vent’anni di servizio, la sua prima missione è stata in Somalia, poi l’Albania, il Kosovo, la Macedonia, l’Eritrea, l’ultima in Iraq: «Mentre noi eravamo nel nostro accampamento c’era ordigni inespolsi che periodicamente facevamo brillare. Respiravamo quell’aria senza nessun filtro e la temperatura esterna arrivava a 70 gradi». I pericoli dell’uranio impoverito sono riconosciuti da anni, come dimostra il famoso documento della Brigata multinazionale West del novembre ’99, diffuso tra i vertici del nostro esercito in Kosovo: «L’inalazione delle polveri insolubili di uranio impoverito è stata associata con effetti a lungo termine sulla salute». Molti soldati e civili sono morti nei territori “armati” dagli americani per aver respirato l’aria attraversata dalle particelle esplose dell’uranio impoverito.