Minacce di manovra-bis

La decisione del governo di attuare una manovra aggiuntiva nel bilancio dello Stato, è una scelta negativa. La prima in politica economica. Se fossimo un po’ all’antica, per qualificarla basterebbe il fatto che tutti i sindacati, anche i più moderati, hanno espresso il loro disaccordo, mentre la Confindustria ha manifestato appoggio. Naturalmente nel futuro succederà anche il contrario, e cioè che le misure del governo raccoglieranno l’approvazione dei sindacati e il no della Confindustria, però intanto si è cominciato così.
C’era un’alternativa? Sì. Come avevano chiesto i sindacati il governo avrebbe potuto andare a Bruxelles e chiedere più tempo per rientrare nei limiti di deficit previsti. Avrebbe avuto a suo vantaggio il fatto che la Commissione europea aveva approvato il piano di rientro del governo di centrodestra e quindi era stata per lo meno benevola con le operazioni sui conti pubblici di allora. Il fatto che improvvisamente quelle stesse persone scoprano dopo le elezioni che i conti italiani sono molto peggio di come essi stessi li avevano considerati, francamente è un po’ sospetto. Il governo italiano, senza tante polemiche sui vuoti lasciati dalle amministrazioni precedenti, avrebbe potuto semplicemente far valere presso la Commissione europea quanto quella Commissione aveva già precedentemente definito. Perché non l’ha fatto? Per paura.

Il direttore di Liberazione ha scritto che è in atto un’offensiva dei poteri forti e di forze conservatrici e confindustriali, per condizionare pesantemente il governo. Ha ricordato l’estate del 1964, quando il governo di centrosinistra dovette rinunciare ai suoi propositi riformatori per le pressioni di quelle stesse forze e anche per le minacce golpiste di una parte degli apparati dello Stato.
Oggi non ci sono tintinnii di sciabole di qualche generale o colonnello esuberante, che possano condizionare il governo. Nell’epoca della globalizzazione liberista le minacce alla stabilità vengono dalle agenzie di “rating”, cioè da quelle società private che giudicano la solvibilità degli stati, delle aziende, delle operazioni finanziarie. Queste agenzie, da Standard & Poor’s a tutte le altre, nel passato non sono state molto attente a vigilare sui conti di Enron, e, qui da noi, di Cirio, Parmalat, Finmek, ecc. Però sono sempre state molto concentrate sulla spesa sanitaria, sulle pensioni, sulle spese sociali degli stati. Qui non perdono una mossa. E per l’Italia hanno fatto capire che senza una politica di tagli, ci sarebbe un declassamento del loro giudizio sul debito pubblico. Nella sostanza, di fronte a questo giudizio – di agenzie d’affari private, lo ripetiamo – lo Stato potrebbe essere costretto ad aumentare i tassi di interesse, cioè a pagare di più chi gli presta soldi e quindi a peggiorare ancora i suoi conti. Ecco, è bastata la minaccia delle agenzie di rating di rivedere il giudizio sul debito italiano, perché il governo decidesse di pagare subito un ticket alla sua credibilità sui mercati internazionali.
E’ una scelta rischiosa perché può dare avvio a una strada dalla quale non si esce più. Infatti già oggi i commenti dell’establishment economico e finanziario sono tutti dello stesso tipo: “bravi, ma non basta”. D’altra parte, già trovare 10 miliardi di euro, di questo più o meno si tratta, non è semplice su due piedi. I tempi più lunghi sarebbero serviti anche ad organizzare con giustizia il reperimento delle risorse. Solo in tempi medi si può pensare, infatti, di colpire davvero l’evasione fiscale e contributiva, di far pagare chi non ha mai pagato. Reperire invece 10 miliardi di euro pronto cassa non è semplice. La tentazione di andare a cercare i soldi là dove sono da sempre pronti e disponibili, sarà molto forte. Si ha un bel dire che si agirà con giustizia. Dove si vanno a prendere in due mesi questi soldi? Non a caso era stata ventilata l’ipotesi di un aumento dell’Iva, una misura iniqua che colpisce sempre e solo i redditi più bassi con il conseguente aumento dei prezzi. Una misura adottata dalla signora Merkel in Germania, che proprio a causa di essa subisce sempre più forti contestazioni da parte del mondo del lavoro. Attendiamo di vedere in concreto quali misure verranno adottate. Certo, se alla fine la manovra aggiuntiva finisse per ripercorrere le orme di tutte le analoghe misure dei passati governi di centrodestra e di centrosinistra – tagli a raggio largo nella spesa pubblica e indistinto aumento della pressione fiscale – saremmo di fronte a una vera ragione di scontro.

Marco Revelli anni fa ha scritto che esistono due destre. Una populista e autoritaria, l’altra tecnocratica e liberale. Le due destre sono alternative, sia sul piano della democrazia e dei valori, sia sul piano delle scelte economiche di riferimento. Tuttavia hanno un mito in comune: i governi della signora Thatcher che negli anni Ottanta, in Gran Bretagna, distrussero stato sociale e potere contrattuale dei lavoratori.

Mi pare che quanto stia avvenendo in questo periodo in Italia riproponga il tema delle due destre. Sconfitta la destra populista di Berlusconi, ricompare subito l’altra. Essa è ben rappresentata dalla relazione del nuovo governatore della Banca d’Italia. Privatizzazioni, flessibilità del lavoro, tagli allo stato sociale e alle pensioni sono, in quella relazione, gli strumenti per far ripartire lo sviluppo. Naturalmente questa seconda destra è più intelligente ed aperta di quella populista. Per questo essa si propone di raggiungere i suoi obiettivi con il consenso. La Confindustria di Montezemolo, che nelle sue assemblee raccoglie chi non riesce ancora ad accettare la Resistenza nelle fabbriche, però continua a parlare di concertazione. Parola con la quale si vuole semplicemente chiedere al sindacato di accettare con buone maniere che le imprese abbiano i finanziamenti pubblici, la flessibilità del lavoro e i buoni profitti, e il lavoro niente.

Dopo la svolta moderata del primo centrosinistra furono l’azione del Pci e, soprattutto, il movimento di lotta, che cambiarono le cose. Mi pare chiaro che se vogliamo evitare una deriva sempre più moderata nella politica economica del governo, anziché di concertazione occorre parlare seriamente di conflitto sociale.