Milano tradisce Bossi e Berlusconi

Dopo il referendum, anche i più accaniti sostenitori della «questione settentrionale» dovranno arrendersi: esistono tanti Nord. Sommati insieme, hanno bocciato con il 53% di no la «controriforma di Calderoli». E persino in Lombardia e in Veneto, le uniche regioni dove il sì ha vinto, il dominio del centro destra mostra evidenti smagliature. «Qui è meglio tornare al Lombardo-Veneto», commentavano ieri gli affranti leghisti a Radio Padania. Ma nel loro Lombardo-Veneto mancherebbero (oltre al Friuli e al Trentino) Milano, Venezia, Mantova e Rovigo. Sono le città e le province dove ha vinto il no. Il risultato politicamente più significativo è, ovviamente, quello di Milano, dove il no ha ottenuto quasi il 52%. E’ grosso modo la percentuale che, appena un mese fa, aveva riconsegnato per la quarta volta consecutiva Palazzo Marino al centro destra ed eletto sindaco Letizia Moratti. Il ribaltamento, oltre a tirare su il morale, spezza il sortilegio di Milano città vietata al centro sinistra.
In Lombardia, dove ha votato il 60% degli aventi diritto, i sì sfiorano il 55%, percentuale superata di un soffio in Veneto, dove l’affluenza alle urne è stata del 62%. In entrambi i casi sono percentuali inferiori ai voti ottenuti dalla Casa delle libertà alle politiche di aprile. I sì superano il 60% nelle province di Sondrio, Bergamo, Como e Verona. Ci arrivano vicino nelle province di Vicenza, Treviso, Varese, Brescia. Il no passa a Mantova con il 55%, a Venezia e Rovigo con il 54%. Ovunque il sì è più alto nelle valli e nelle piccoli centri che nei capoluoghi.
Come l’hanno presa i lombardo-veneti di sinistra? Tutto sommato bene, perché la paura alla vigilia era tanta. Piazza Scala piena solo a metà per la manifestazione di chiusura della campagna del no aveva fatto correre un brivido lungo la schiena ai volonterosi del Comitato «Salviamo la Costituzione». Poca gente in piazza a Roma e persino a Bologna facevano temere il peggio. Invece è andata ed è andata bene. Antonio Lareno, che a Milano è stato l’uomo della Cgil nel Comitato per il no, vede il bicchiero mezzo pieno. Il sì ha vinto nel Lombardo-Veneto «però il no ha vinto nel cuore del Nord, Milano». Se la mobilitazione fosse stata più convinta, se il centro sinistra non avesse avvolto il suo no in mille cautele e distinguo, «il risultato sarebbe stato migliore anche nelle due regioni maledette». In tutto il Nord a far campagna per il no sono stati solo il Comitato presieduto da Scalfaro e la Cgil. «Spero che il centro sinistra impari la lezione», dice Lareno, «e soprattutto al Nord smetta di inseguire la destra sul suo terreno». La vittoria travolgente del no su scala nazionale impone di lasciar in pace la Costituizione per un bel po’. Il 53% di no al Nord e la vittoria di Milano, inoltre, «proibiscono all’Unione di fare pasticci con una Lega che, probabilmente, si sgancerà dalla Casa delle libertà».
«Bossi è un’icona che si continua a usare dentro una cosa che non esiste più», commenta da Varese Rocco Cordì, attento conoscitore della Lega. Si offrirà? E’ pronto per un altro ribaltone? Più che i giochini di Bossi a preoccupare Cordì è la «disponibilità» del centro sinistra. Con una Lega precipitata al 15% a Varese, «qui i diessini continuano a parlare di partito del Nord, di federalismo fiscale, di cemento e infrastrutture». C’è un malessere del Nord, ammette Cordì, ma il centro sinistra gira a vuoto nel proporre una cura.
La Margherita esulta per la vittoria del no a Milano. La «capitale del Nord», dice Franco Monaco, «gira le spalle a Berlusconi e a Bossi». Dalle urne, aggiunge, viene una doppia smentita: che Milano sia un feudo inespugnabile della destra e che la devolution corrisponda a innovazione. Per i Verdi lo «splendido risultato» di Milano ha contribuito a bocciare «la demagogica e raffazzonata riforma costituzionale varata dal centro destra». Bossi vuole ritarsi in Svizzera?, domanda il segretario del Prc lombardo Ezio Locatelli. «Si accomodi, non ne sentiremo la mancanza». L’iperfederalista Filippo Penati, presidente diessino della Provincia, interpreta il no di Milano alla devolution come «una chiara apertura di credito al governo e al parlamento perché facciano una riforma vera».