Dì la verità, da quanto tempo non vedevi tante bandiere rosse in piazza? Da una vita. Il vecchio militante di tante battaglie (perse) non riesce a credere ai suoi occhi, e fatica a rimettere insieme i pezzi di uno scenario che farebbe girare la testa anche a Quentin Tarantino. Ragazzine con la frangetta da cartone animato e la maglietta D&G guidano la rivolta dettando ordini al megafono, la polizia in assetto antisommossa non capisce ma si adegua: arretra quando l’onda delle bandiere della Repubblica popolare cinese si fa più minacciosa. Gridano, lanciano bottigliette, inseguono chiunque tenti di forzare il blocco del traffico. Le saracinesche sono abbassate come per uno sciopero generale. Tutte le rivolte popolari cominciano così, con i curiosi affacciati al balcone e la piazza che si ingrossa e riprende la parola: «Violenza e abusi sulla comunità cinese», lo striscione di apertura, vorrebbe sfilare fino in piazza Duomo. Poi ci ripensano. Ci si ribella a un sopruso, come è successo ieri: «Vigili, violenza su donne e bambini», questi sono cartelli improvvisati scritti con il pennarello. Il bilancio ufficiale degli scontri, come sempre, è bugiardo. Cinque «rivoltosi» contusi, e quattordici vigili urbani malconci.
Ma qui non è il popolo a essere incazzato nero, sono i commercianti cinesi, e non tutta la comunità cinese (almeno 10 mila persone a Milano). Anzi, sono i loro figli. Perché a 18 anni già lavorano sodo, hanno i soldi in tasca e non sono più disposti a camminare strisciando lungo i muri. Ultimissima generazione. Alzano la testa, ti guardano dritto in faccia. Ragazzini, vivono qui dalle elementari. E pagano le tasse, e sono regolari. Vogliono lavorare. Solo a Letizia Moratti poteva venire in mente di bastonarli come se niente fosse e perdipiù a casa loro. Un capolavoro di gestione dell’ordine pubblico. E così per la prima volta un intero quartiere è stato messo sotto assedio, come fosse una banlieue parigina, ma siamo a due passi da piazza Castello, la Chinatown di Milano, un luogo che se fossimo in una città normale sarebbe su tutte le guide turistiche, la vetrina più multietnica d’Italia.
Tutto sarebbe successo per un «semplice» controllo dei vigili, una multa finita male. Ma sono due mesi che i vigili multano i commercianti cinesi all’ingrosso che scaricano le merci con i loro carrelli. E non si può: è permesso solo dalle 10 alle 14. Fa quasi tenerezza sentire la Moratti (piuttosto pallida) dire che «le regole devono essere uguali per tutti». Quindi inflessibilità ma solo in via Paolo Sarpi (tranne che con i commercianti italiani) e occhi ben chiusi in corso Buenos Aires, o in corso Vittorio Emanuele, per esempio, dove i carrelli dei negozianti nostrani scarrellano indisturbati. E adesso? Un bel problemino, visto che negli ultimi quindici anni tutte le amministrazioni comunali hanno rilasciato regolari licenze ai grossisti cinesi, e visto che i cinesi abitano in via Paolo Sarpi (dagli anni Venti) anche perché hanno pagato profumatamente gli appartamenti agli italiani (e anche il doppio del prezzo di mercato). Suona come punitiva anche l’ultima pensata del Comune: via Paolo Sarpi chiusa al traffico, tanto per impedire ai cinesi di lavorare.
Quanto ai controlli, tutti in zona sanno come si comportano i vigili con gli stranieri (tranne Onorio Rosati della Cgil di Milano, che in linea con Palazzo Marino esprime solidarietà alle forze dell’ordine). Ieri una donna, R.Y., con l’auto parcheggiata regolarmente, è stata multata perché il trasporto della merce sarebbe avvenuto su un’auto privata: ne è nata una discussione, con spintoni e botte anche a una donna con un bambino in braccio. Chi ha visto la scena ha protestato (italiani compresi) e la situazione è subito degenerata, con un primo gruppo di cinesi che ha letteralmente assalito la macchina dei vigili, e con la polizia arrivata in forze che ha completato l’opera distribuendo manganellate a caso. Limin Zhang, console generale della Repubblica Cinese, ha reagito duramente, come fosse consapevole che prima o poi sarebbe successo qualcosa: «Questo episodio non è casuale, sono due mesi che qui siamo sottoposti a forti pressioni. Voglio sapere chi ha sbagliato, sono qui per capire, e per proteggere gli interessi legali dei commericanti cinesi».
Vittorio Mariani, che vota Forza Italia e ci tiene a dirlo, abita da trent’anni a Chinatown e sa come si comportano i vigili, «se ne vanno in giro come degli sceriffi a fare i duri, è una cosa vergognosa, i cinesi lavorano e pagano le tasse, è assurdo impedirgli di scaricare la merce, sono arrivati al punto da mettere le telecamere davanti ai negozi come se spacciassero droga, noi dovremmo solo ringraziarli perché sono una comunità tranquilla che non ha mai dato problemi a nessuno». Due mesi fa, una signora è stata maltrattata – «le hanno messo le mani addosso» – da un’altra pattuglia di vigili, e volevano anche sequestrarle la bicicletta con cui stava trasportando un piccolo carico. L’episodio lo ricordano tutti, compresi i baristi italiani.
Ma se un quartiere intero si rivolta, una multa non c’entra, e nemmeno dieci. I cinesi faticano a palare di razzismo. E però. Racconta Pin Chan, 18 anni: «Uno può anche fare una multa ma è scorretto mettere le mani addosso alle persone. Succede spesso di subire atteggiamenti violenti, mentre se un italiano spinge un carrello i vigili fanno finta di niente. Con gli italiani del quartiere non ci sono troppi problemi, al massimo non ti salutano e ti insultano a bassa voce». Anche Linda Hu ha 18 anni: «Noi vogliamo essere trattati come gli altri. Non esiste che noi dobbiamo pagare le multe in contanti e gli italiani no, io vivo qui da dodici anni e non capisco perché devo essere insultata dalle persone anziane solo perché scarico la merce con il carrello. E’ anche una questione di educazione, non voglio parlare di razzismo però ultimamente ci sentiamo bersagliati. E quando i giornali parlano di noi scrivono sempre cose assurde, parlano di criminalità e affari loschi, ma noi siamo continuamente controllati, qui è tutto in regola, lo sanno anche i vigili».
Linda, Pin e gli altri ieri sera hanno smesso le barricate solo quando hanno saputo che nei prossimi giorni il sindaco di Milano incontrerà i rappresentanti della comunità. Considerata l’aria che tira, speriamo che Moratti non insista più di tanto nel sostenere la sua idea: «E’ allo studio una delocalizzazione della comunità cinese, si tratta di un obiettivo non realizzabile nel breve periodo». L’idea di trasferire i grossisti del resto non dispiace neanche al centrosinistra milanese. Prima gli danno la licenza e poi fanno di tutto per allontanare i loro negozi (e i loro clienti anche italiani) dal centro storico. Alla faccia del libero mercato. Se capitasse in Buenos Aires, sai le fiaccolate…