ROMA – Le primarie non gli piacciono. “Il referendum sulla persona è un’anomalia”. Ma se proprio si dovessero fare, allora lui sarebbe pronto a offrire un'”iniezione di democrazia”: “Ci vorrebbe un altro candidato oltre Prodi, un candidato della sinistra alternativa. Potrei essere io”. Ma l’urgenza è altrove. Fausto Bertinotti vuole scrivere il programma del centrosinistra, “l’Italia che vogliamo”, dice usando un vecchio slogan dell’Ulivo. Non c’è tempo da perdere: “Il ritardo, anche involontario, sarebbe un grave errore politico. Convochiamo l’assemblea programmatica subito, ai primi di settembre”. E aggiunge: rispetto al ’96 Prodi deve cambiare. “Tutto è diverso da allora, il mondo, il lavoro, i soggetti della politica. Gli uomini avveduti sono capaci di rovesciare le loro convinzioni”.
Segretario, la sfida lanciata da Prodi è rivolta a tutto il centrosinistra. Qual è la sua risposta?
“Apprezzo il senso di ricerca democratica di quella che nel sindacato si chiama validazione consensuale delle scelte. Ogni allargamento della partecipazione va sostenuto. Ma ho due dubbi. Non siamo nelle condizioni delle primarie americane dove ai nastri di partenza ci sono diversi competitori. Siamo invece nella vicenda della politica italiana per cui Prodi è stata considerato fin qui il leader della coalizione da tutti, ormai anche da noi. Quindi, c’è un’anomalia. Se davvero si volessero fare le primarie, la questione andrebbe risolta con un’iniezione di democrazia. Diventa cioè necessario un altro candidato, al limite un uomo della sinistra alternativa, un candidato che sia la bandiera di una democrazia vivace. Io diffido di tutto ciò che è unico: il partito unico, il leader unico…”.
Così ricomincia il balletto dei nomi.
“Quando parlo di candidato alternativo lo faccio per non dare alle primarie un carattere artificioso. In una situazione di questo genere posso pensare di candidarmi io come espressione della sinistra alternativa. Negli Stati uniti ora c’è Kerry, ma all’inizio erano in tanti. E senza un candidato più di sinistra, non ci sarebbe il Kerry di oggi, con le sue proposte e i suoi programmi. Le primarie sono una misurazione di tendenza. Fermo restando che chi vince ci rappresenta tutti. Ma il referendum su una sola persona non è democratico”.
Il secondo dubbio?
“Non sento il bisogno di primarie sulla leadership quanto sui contenuti programmatici. Le faccio un esempio: la legge 30, quella sul mercato del lavoro. Nel centrosinistra c’è chi sostiene, come noi, che va abrogata, altri vorrebbero modificarla, altri puntano solo a un piccolo maquillage. Un confronto sul terreno programmatico per me è molto più interessante”.
Lei ha avuto un lungo incontro con Prodi la scorsa settimana. A che punto siamo sul programma?
“Ci si orienta da più parti verso una vera e propria assemblea programmatica. Giorgio Ruffolo ha parlato del modello della convenzione europea, con i partiti al posto degli Stati. È un metodo convincente, ho visto che Piero Fassino lo appoggia. Dev’essere un’assemblea veramente plurale. E andrebbe composta così: i rappresentanti dei partiti, una rappresentanza della società e non penso solo a una serie di nomi, ma a personalità che siano davvero espressione di movimenti e infine i rappresentanti dei governi locali. Mi sembra di capire che questa è la strada, è un’idea di massina largamente condivisa. Quello che manca è l’urgenza della precipitazione, l’energia politica per arrivare al risultato. L’approssimazione al tema è largamente condivisa. Ma non si sente il problema. Beh, è arrivato il momento di trasformare il tema in problema. Il voto nella prossima primavera non è un’ipotesi remota, il trascinamento, anche involontario, della questione-programma non sarebbe un semplice ritardo, ma un errore politico. E non vorrei ripetere l’esperienza della Terza Internazionale che nascondeva gli sbagli dietro la foglia di fico degli impedimenti, dei ritardi. Dunque, convochiamo l’assemblea del programma”.
Quando?
“Subito, ai primi di settembre. Si proceda alle designazioni, si scelga il momento e il luogo. Corriamo con l’handicap se non abbiamo un programma. Anche perché nel centrodestra, Follini o non Follini, la crisi del sistema berlusconiano è irreversibile, è saltato il blocco sociale che li sosteneva e anche la mediazione culturale che si poggiava su un pilastro populista e neoliberista. Ed è impensabile una Finanziaria da lacrime e sangue di fronte alla crisi immanente”.
Prodi dice di non volere la stessa “fotografia” del ’96. E lei?
“Considero la consultazione sul programma una radicalizzazione. Quella della leadership sarebbe una discontinuità pallida, il vero salto di qualità dobbiamo farlo sui contenuti. Allora ci fu la desistenza, programmi separati. Oggi propongo un programma di tutti. Del resto, dal ’96 a oggi la scena mondiale è cambiata”.
E Prodi lo sa, malgrado la distanza Roma-Bruxelles?
“Prodi ne è consapevole, il senso del cambiamento è molto diffuso soprattutto in Europa. E sulle soluzioni siamo abbastanza vicini. Il partito socialista francese ha diffuso un manifesto il cui primo firmatario è il “moderato” Michel Rocard. Dice più o meno così: “al referendum di 10 anni fa Delors chiedeva di votare per Maastricht perché da lì sarebbe nata l’Europa, oggi quella tesi è indicibile”. È arrivato il momento di proporre una costituzione sociale europea che rovesci Maastricht. Per i Paesi ci vogliono le sanzioni non più sulla politica monetaria, ma sui dati della disoccupazione, della precarietà, delle questioni sociali”.
E il Professore che ne pensa?
“Quel manifesto “rovesciato” è firmato anche da Delors. Gli uomini avveduti possono collocarsi con politiche diverse in ruoli nuovi. Perché non deve essere possibile che anche Prodi cambi?”.
Lei ha parlato dell’abolizione della legge 30. È una delle vostre proposte?
“Il punto non è nell’elenco degli obbiettivi, ma nell’impianto generale. Bisogna dire qual è l’Italia che vogliamo dopo cinque anni di governo. Non si tratta solo di cacciare Berlusconi, ma di cambiare la politica. Il programma è la configurazione del blocco sociale cui ci rivolgiamo. E non basta descrivere, ci vuole l’interpretazione. Io penso a una profondità di analisi simile a quella che accompagnò la nascita dei primi governi di centrosinistra negli anni ’60. Altro che ’96”.