Mezzogiorno, scoprire la storia per accantonare le rivalità da bottega

All’incirca un secolo fa Ettore Ciccotti osservava che sul Mezzogiorno erano calati, cumulandosi, oltre ai mali del capitalismo quelli del suo mancato sviluppo.
Ciccotti era socialista, docente insigne di storia antica, promotore presso le “Edizioni Avanti!” di una collana di scritti di Marx, Engels e Lassalle, ed ebbe parte nella lotta contro la camorra che i socialisti napoletani condussero nei primi anni del secolo scorso. Fu anche deputato ed è suo un gustoso libretto “Come divenni e come cessai essere deputato della Verità”.
Qualcosa di analogo può dirsi di oggi. Nelle regioni semidistrutte dalla guerra restavano in piedi solo quelli che Guido Dorso denunciava come i pilastri dello “Stato storico”: il prefetto, il questore, il provveditore agli studi, il maresciallo dei carabinieri. Napoli vi ebbe e ha mantenuto il ruolo di laboratorio del nuovo corso. Devastata dal laurismo, sgovernata dalla Democrazia cristiana con le temporanee eccezioni delle amministrazioni di Valenzi e quella fugace di Lezzi, ha visto calare su di sé l’onda torbida e travolgente della “globalizzazione”.
Prima che essa sfrenasse tutta la sua irresistibile potenza un tentativo di riscossa c’era stato e fu quello della prima “era Bassolino” che fece parlare di un “rinascimento napoletano”, ma ebbe fiato corto e non penetrò nella società. Oggi la Campania e la sua capitale arrivano agli onori delle cronache nazionali per gli omicidi in serie ininterrotta e i milioni di tonnellate di rifiuti nelle strade, la camorra ha piantato radici profonde e ramificate nell’imprenditoria e nelle pubbliche amministrazioni, dispone di un patrimonio immobiliare, impone le sue tasse.
A spianare la via è stato il disfacimento del vecchio sistema politico, accompagnato dalla nascita di rapaci compagnie di ventura e dalla sempre più marcata involuzione clientelare dei residuati dei partiti di antica tradizione. Il cemento ideologico a questo stato di cose è fornito dalle reti televisive pubbliche e private, a partire dai notiziari, per arrivare alla sconcezza dei messaggi pubblicitari. L’Università, pletorica, smembrata in mille pezzi, gravata da docenti pendolari, sopravvive in pochi centri ad opera non riconosciuta di professori che ancora obbediscono alle leggi del dovere.
A questo punto sentire le giaculatorie delle “istituzioni” ad ogni morto ammazzato e ad ogni scuola devastata, che tutte si chiudono con un inno alla legalità e con la richiesta di più polizia, vedere sugli schermi il volto disperato del commissario addetto allo smaltimento dei rifiuti, sapere che il cardinale ha disposto che alle soglie delle chiese siano posti cestini dove gli accoltellatori pentiti e contriti vadano a deporre i loro strumenti di lavoro non basta ad aprire il cuore alla speranza.
La politica, oggi, come si diceva un tempo del patriottismo, è l’ultimo rifugio delle canaglie: quando si dice che il problema è politico, nella maggior parte dei casi si vuole eludere una risposta limpida e precisa. Ma il problema in questo caso è davvero tutto politico e sta nell’assenza di sedi dove si elaborano e si confrontano proposte, dove si selezionano e si controllano dirigenze e rappresentanze, dove si respira la democrazia. Al loro posto stanno asfittiche congregazioni aggregate intorno ai centri di potere, tenute insieme da legami clientelari. Alla “partitocrazia” che ha dato vita alla democrazia repubblicana si è sostituito il regime dei sindaci e dei “governatori” cui sovrasta un governo espresso da Camere che oggi addirittura prevedono la designazione preventiva degli eletti da parte delle segreterie dei partiti.
Da questa situazione la parte maggioritaria della sinistra pensa di uscire con la formazione di un partito democratico “all’americana” – non ne vedo esemplari in Europa – fatto di esangui nostalgici che vanamente si affannano a cercare precursori, di convertiti al culto fanatico e cupo della “crescita” illimitata, di rispettabili cattolici democratici e di clericali, seguaci del cardinal Ruini. Quello che brilla per la sua assenza è un gruppo armato di una dottrina critica di un ordine economico che minaccia la sopravvivenza del genere umano.
E torno al Mezzogiorno. Qui, anche in questo campo, ai guasti antichi si sono aggiunti quelli nuovi, a quelli provocati dalla partitocrazia si sono sovrapposti quella della democrazia senza partiti. Ma resta pur vero che il processo messo in atto produrrà degli effetti che si ripercuoteranno in tutti i settori della sinistra e potranno aprire nuove vie a quanto ancora conservano una carica di fede e di speranza.
Chiudo con un ricordo che dedico ai dirigenti d’oggi della sinistra meridionale. Sessant’anni fa, nell’ambito dell’operazione volta a dar vita – scelta infelice! – al fronte democratico popolare, si costituì un Fronte Democratico del Mezzogiorno. Seccamente battuto nelle altre regioni, il Fronte nel Mezzogiorno, dove i partiti repubblicani insieme erano risultati nel ’46 una sparutissima minoranza, avanzò, non si sciolse, si dette una propria organizzazione e un proprio quadro dirigente capeggiato da Giorgio Amendola e Francesco De Martino, dette vita al primo e solo grande movimento democratico di massa che le regioni meridionali e le isole abbiano conosciuto nel corso della loro storia, che promosse e guidò movimenti di lotta costati la vita a decine di sindacalisti assassinati e di braccianti moschettati dalla polizia nelle lotte per la terra, che creò, anche in paesi remoti, circoli culturali, che riscosse successi elettorali. La storia non si ripete, ma scoprirne le fonti dimenticate alimenta culture, stimola l’insorgere di idealità, suggerisce moduli di lotta politica.
Io sommessamente credo che diessini renitenti alla chiamata, dirigenti della cosiddetta sinistra radicale farebbero bene a scoprire questa pagina della nostra e della loro storia, accantonando e dando alla fiamme le rivalità di bottega.
Ho il vago ricordo del discorso col quale Amendola annunciò che il movimento per la Rinascita del Mezzogiorno e quello degli applausi che fecero tremare il teatro. Mario Alicata, uomo di lettere, commentò con un verso carducciano, “era una voce come tuon di maggio”.
Il movimento si disfece per più ragioni, decisiva la crisi nei rapporti tra socialisti e comunisti seguita ai fatti d’Ungheria. Oggi non c’è l’Urss a dividere, c’è l’Europa a unire.