A Castellupo – così suona in italiano il toponimo Wolfsburg – L’emigrante l’hanno immortalato in bronzo. Piccolo di statura, sembra appena sbarcato dal treno. Con l’immancabile valigia legata con lo spago, guarda spaesato davanti a sé. Non ha un piedistallo su cui troneggiare. Lo scultore Quinto Provenziani ha messo la statua all’altezza del terreno, dove fino al 1977 sorgevano le baracche per gli italiani venuti a lavorare alla Volkswagen. Ora lì c’è un parco con un laghetto e il nuovo stadio, regalato alla città dalla fabbrica, madre e padrona. «L’emigrante» volge le spalle allo stabilimento. Né si interessa allo stadio. Il suo sguardo si perde verso un boschetto all’orizzonte. In piedi sul prato, mezzo nascosto dagli alberi, rischia di passare inosservato. Quella piccola statua sta lì dal maggio del 2004. L’ha voluta appassionatamente Rocco Artale, anche lui Gastarbeiter, «lavoratore ospite», poi dal 1974 al 2000 funzionario della Ig-Metall di Wolfsburg, ora pensionato. A 65 anni è consigliere comunale nelle fila della Spd: «Mi ero battuto per anni per il diritto di voto degli immigrati alle comunali. Quando l’abbiamo ottenuto, e mi hanno chiesto se volevo candidarmi, non potevo tirarmi indietro».
E’ tempo di monumenti e rievocazioni, a ridosso di un anniversario tondo: cinquanta anni fa, il 20 dicembre 1955, il ministro del lavoro tedesco Anton Storch e il ministro degli esteri italiano Gaetano Martino firmarono a Roma il trattato sul reclutamento di lavoratori italiani.
Nella foto con la stretta di mano Martino è raggiante. Dall’inizio degli anni `50 i governi italiani cercavano di sbarazzarsi della «mano d’opera eccedente» al sud. Ai giovani disoccupati De Gasperi aveva raccomandato: «Imparate una lingua e andate all’estero». Le lingue non gliele insegnò nessuno. Nemmeno a scrivere e a leggere bene l’italiano, perché molti lasciavano la scuola senza licenza elementare. All’estero andavano lo stesso: prima in Francia, in Belgio, in Svizzera. Ora sarebbero potuti partire anche per la Germania.
Il ministro Storch, democristiano, sembra meno contento del collega italiano. Lui quel trattato non avrebbe voluto firmarlo: in Germania la disoccupazione era ancora al 5,1%, i sindacati non volevano concorrenza straniera. La firma fu imposta dal ministro dell’economia Ludwig Erhard, pressato a sua volta dalle associazioni degli industriali: in alcune regioni la disoccupazione era già molto ridotta (al 2,2 in Baden-Württemberg, al 2,9 in Schleswig-Holstein). Si voleva predisporre un nuovo canale di reclutamento per calmierare i salari.
L’emigrazione divenne un fenomeno di massa a partire dal 1960. In quell’anno il tasso medio di disoccupazione in Germania era sceso all’1,3 per cento (negli anni successivi, fino al 1966, rimase addirittura sotto l’uno per cento). A fronte di 270mila disoccupati c’erano 645mila posti di lavoro scoperti. La Rft strinse altri accordi di reclutamento sul modello di quello italiano, nel 1960 con la Grecia e la Spagna, con la Turchia nel 1961, col Portogallo nel 1964. Infine con la Jugoslavia nel 1968.
Gli inizi dell’emigrazione italiana in Germania risalgono agli ultimi decenni dell’800. Nel 1937 Hitler e Mussolini pensarono di rilanciarla con campagne di reclutamento organizzate dagli uffici del lavoro. Furono anche migliaia di muratori italiani a tirar su dall’estate del 1938 gli enormi stabilimenti automobilistici in mattoni scuri, che Hitler finanziò a Wolfsburg con il patrimonio sequestrato ai sindacati. Lì si doveva costruire «l’auto per il popolo», risposta nazionalsocialista al fordismo. Quei piani rimasero a lungo nel cassetto: durante la guerra si produssero auto per l’esercito e mine.
E con la guerra non c’era più da fare affidamento sull’emigrazione volontaria. I nazisti passarono a razziare nell’Europa da loro occupata forza lavoro coatta, segmentandola con criteri razzisti in un pauroso universo concentrazionario. Alle officine di Wolfsburg lavorarono a sangue 1.441 internati militari italiani del «Kommando di lavoro 6024». Questo passato così recente poteva costruire una grossa remora alla ripresa del reclutamento di forza lavoro in Italia, con meccanismi amministrativi non dissimili da quelli sperimentati dal fascismo nel 1938. Vi si mise sopra una pietra di silenzio. Proprio nel `55 la Rft aveva schierato i primi contingenti della Bundeswehr. Nel `56 lo stesso ministro Martino e il ministro della difesa Taviani disposero l’occultamento nell’«Armadio della vergogna» dei fascicoli sulle stragi commesse durante l’occupazione tedesca.
Rocco Artale, quando andò in Germania la prima volta a lavorare in uno zuccherificio nel `61, a 21 anni, un po’ di paura ce l’aveva. «Mio padre era stato internato in Germania. Mi aveva messo in guardia: `Non litigare con la polizia, quelli sono cattivi’. Me ne ricordai quando una ragazza che lavorava allo zuccherificio mi invitò a casa sua, e entrando vidi un’uniforme sull’attaccapanni. Scappai via. Non sapevo che era figlia di un poliziotto».
Il primo choc per Artale era stata la visita medica a Verona: «Stavamo in fila nudi, ci palpavano e soppesavano, ci guardavano in bocca come ai cavalli. Chi superava il controllo veniva dichiarato `abile’». E arruolato. Il secondo choc fu il viaggio: «Dovevamo andare a Hannover, ma non sapevamo né dov’era né quanto sarebbe durato il tragitto. Ci spedirono come sacchi di patate». Tornato a Pescara dopo la stagione delle barbabietole, con turni di dodici ore di giorno e di notte, Rocco si vide costretto a partire di nuovo: «Da noi non c’era lavoro. Eravamo schiavi della miseria». Ripartì nel `62, stavolta per Wolfsburg. Fu un nuovo choc: «Eravamo in un campo di 50 grandi baracche di legno, a due piani. Il campo era recintato col filo spinato, sorvegliato da guardie che la notte lo pattugliavano coi cani lupo. Quando gli abbiamo chiesto il motivo di quella recinzione ci spiegarono che era per proteggerci, dalle molestie di prostitute e venditori ambulanti».
Dal 1955 a oggi si registrarono in Germania più di quattro milioni di arrivi dall’Italia. Difficile dire esattamente quante persone furono coinvolte dalla migrazione, perché molti partirono e tornarono più volte, registrati ogni volta in Germania come «nuovi arrivati». La maggior parte non ha resistito a lungo. «Qui a Wolfsburg tanti rifacevano le valigie. Assunti con contratti annuali (così da poterli rimandare via alla prima crisi, come avvenne nel `66-’67), sparivano prima della scadenza».
Ora in Germania ci sono 548mila italiani, tra Gastarbeiter della prima generazione, i loro figli, i nipoti, e i nuovi arrivati che un posto in fabbrica nemmeno se lo sognano. O lavorano nelle pizzerie. Oppure hanno studiato, sanno le «lingue», ma passano ugualmente di stage in stage invocando San Precario.
Rocco Artale è tra quelli che ce l’hanno fatta. Ha una moglie tedesca, due figli all’università, un incarico politico al consiglio comunale. Eppure, quando gli chiedo se ripartirebbe per la Germania, se potesse tornare indietro nel tempo, risponde senza esitare: «No, non lo rifarei».