Le «sconfitte» militari degli Stati Uniti erano già un argomento imbarazzante nel 1960, ancora prima della guerra in Vietnam, quando Paul M. Sweezy – il maggiore economista radical del ‘900 – ne dava una interpretazione fondata sull’analisi del capitalismo Usa, col saggio Teoria della politica estera americana (scritto con Leo Huberman e tradotto da Einaudi nel 1963).
Da un punto di vista solo militare invece, è ormai impossibile spiegare perché gli Stati Uniti da sessant’anni conducano guerre interminabili. L’intervento in Iraq è già durato più a lungo di quello nella seconda guerra mondiale, e questo significa che per esempio il «triangolo sunnita» – un territorio non più grande di una regione italiana – e altri gruppi di insurgentes iracheni hanno resistito, senza alleati, più a lungo di giapponesi e nazisti messi insieme. Grazie al valore dei guerriglieri, secondo i sostenitori della resistenza. Per l’incapacità dei generali secondo gli analisti militari.
Come è noto, recentemente negli Stati Uniti una Commissione del Congresso ha criticato l’operato dell’Amministrazione Bush per come ha condotto militarmente e politicamente la guerra in Iraq. Una conclusione a cui George W. Bush e Condoleezza Rice hanno replicato. Il presidente degli Usa ha annunciato l’invio di nuove truppe, mentre il segretario di stato ha sostenuto che la guerra è alla lunga un «buon investimento». Ma c’è un’altra interpretazione che si aggiunge a queste: se la «Guerra globale al terrore» deve durare venticinque anni, va da sé che per ora questa guerra non debba essere vinta. Così i comandi militari possono diluire le operazioni, non «dissipare» i nemici, utilizzare gli scontri interetnici, preferire le situazioni di stallo nel corso di battaglie logoranti. Sovvertendo così ogni logica militare, tanto che il principale storico militare inglese, John Keegan, ha definito la guerra in Iraq un’operazione militarmente priva di senso.
Per questo, per capire perché mai la Guerra globale al terrore debba durare così a lungo, è ancora oggi di grande interesse il saggio di Sweezy, che individua le motivazioni profonde della politica estera Usa interpretando le «sconfitte» come momenti necessari per giustificare le spese militari. Spese considerate indispensabili alla sopravvivenza del capitalismo Usa per due motivi: come volano per riavviare la ripresa economica, e come fondamento dell’egemonia militare.
Secondo Sweezy infatti lo stato normale dell’economia degli Stati Uniti è la depressione cronica che può essere superata da adeguati stimoli esterni: ma non eliminata in quanto tendenza perché la depressione riaffiora se diminuiscono questi stimoli. Tra questi è sempre disponibile una vasta spesa pubblica, preferibilmente militare perché quella civile lede molti interessi (il neoliberismo ha poi esasperato questa tendenza). C’è poi il secondo motivo che Sweezy ritiene della massima importanza: la potenza militare così creata è essenziale per il mantenimento di un impero economico mondiale che fornisce al capitalismo Usa indispensabili materie prime, mercati e campi d’investimento.
Così quando la pressione degli interessi di un capitalismo sempre sull’orlo di crisi devastanti reclama una corsa al riarmo, il compito principale della politica estera diventa quello di offrirne le necessarie giustificazioni. Nel 1960, la giustificazione fondamentale era l’anticomunismo, oggi è l’antislamismo.
Il militarismo Usa dunque ha radici profonde: la mistificazione della difesa nelle mani delle amministrazioni Usa, il capovolgersi dell’economico e del militare, dell’essenziale e dell’apparente, si rivelano anche come le figure ricorrenti di un oscuro processo dialettico.
Per questo, con l’aiuto di Sweezy, si può provare a rovesciarlo per scoprire il nocciolo economico entro il guscio militare, gli interessi del capitalismo Usa nello stato di guerra permanente. Nel settembre 2001 per esempio, l’amministrazione Bush non aveva altra via d’uscita che trasformare retoricamente l’incombente crollo di Wall Street nel crollo delle Twin Towers, che si ritrasformò nella ripresa di Wall Street. Dialettica a Manhattan, da un isolato all’altro.