Metalmeccanico oggi

L’articolo che vi proponiamo è stato preparato per il libro che Giuseppe Sacchi ha scritto sulla lotta degli elettromeccanici a Milano e che uscirà nelle librerie nelle prossime settimane.

METALMECCANICO OGGI
di Bruno Casati
Assessore Provinciale al Lavoro e al Patrimonio

Un fantasma si aggira ancora per l’Europa e altrove. No, non è quello evocato dal vecchio filosofo dalla gran barba. Quel fantasma prima o poi ritornerà. Questo è il suo figlio prediletto: l’operaio industriale, il metalmeccanico, campione di una classe oggi dispersa ma che, ora come allora, cresce “dicotomicamente” (così appunto il filosofo) assieme ad una borghesia che, dal canto suo, ha cambiato pelle. Però il metalmeccanico-fantasma, bisogna saperlo vedere. Di rado esso riempie le piazze come nel secolo scorso. Eppure c’è e pesa socialmente. Deve tornare a contare politicamente.

1) Gli operai metalmeccanici della storia che ci racconta Giuseppe Sacchi, a quel tempo brillante Segretario della Fiom e oggi saggio Presidente Regionale di Rifondazione, furono i protagonisti assoluti di una lotta che per davvero impresse una svolta, fece alzare la testa, a tutto il movimento operaio italiano. La lotta partì proprio da Milano alla fine di quegli anni ’50, durissimi per i lavoratori. Quella lotta anticipò i caratteri della riscossa di dieci anni dopo, di quella brevissima stagione in cui la classe operaia per davvero conquistò diritti, contratti e, soprattutto, centralità politica. Io, i metalmeccanici, li incontrai solo quando entrai nel mondo del lavoro. E fu proprio all’inizio di quella svolta. Prima per me erano solo persone – sono nato e cresciuto a Monza, la città degli opifici e dei cappellifici, il papà era operaio tessile, la mamma cappellaia, quella Camera del Lavoro era storicamente diretta proprio dai cappellai – che al mattino, in una lunga teoria di biciclette, andavano verso una Sesto San Giovanni che si annunciava, da lontano, per la gran nube rossa degli altoforni che incombeva sulla città-fabbrica. Pedalavano per strade ai cui margini erano ancora accumulate le macerie dei bombardamenti. Poi la classe fisicamente si ricomponeva – tessili, cappellai, metalmeccanici – la sera, in quei grandi cortili contornati da ringhiere che erano i centri sociali-comunità del tempo, dove ogni cosa si esprimeva in collettivo, gioie e dolori. E la domenica, al mattino, tutti rigorosamente in giacca e cravatta e, al pomeriggio, al circolo o alla bocciofila. Il lunedì: tuta blu lavata e stirata, bicicletta, la famosa “schisceta” con il mezzo di rosso nella borsa e via verso la fabbrica. Loro, i metalmeccanici, però riconoscevano sé stessi non come categoria generica ma attraverso la qualifica di mestiere: “sono tornitore alla Breda, attrezzista alla Falck, avvolgitore alla Marelli”. Traspariva, anche da questa autocertificazione, quella “coscienza del sé utile” (ah, come ci manca un Gramsci che oggi ci sappia dire, di oggi, cose così!), quell’orgoglio derivato da una manualità sapiente che, però, la catena si apprestava ad assorbire. Il Taylorismo avanzava al gran galoppo sullo slancio di un principio chiave: pensare nuoce alla produttività. Ma quel principio non passava per tutti. Non passò per gli elettromeccanici e i siderurgici ad esempio, anche se via via le macchine utensili automatiche, anche in queste fabbriche, stavano già cancellando prima i tornitori e i fresatori, così come poi in seguito le macchine a controllo numerico avrebbero cancellato aggiustatori ed attrezzisti. Non fu un caso se la scintilla, l’iskra della rinascita operaia, sia scattata proprio negli specifici rapporti di produzione delle fabbriche, elettromeccaniche in particolare, ove si determinarono particolari rapporti di forza perché il sapere operaio (lì) non poteva essere, né può tuttora, essere sostituito del tutto dal braccio della macchina.

2) Fu in quegli anni che, entrato alla Edison di Milano alla progettazione dei grandi impianti idroelettrici, incontrai, non solo come persone ma come soggetto-operaio, gli elettromeccanici. Loro erano i costruttori di quelle turbine e di quegli alternatori, le grandi macchine che collocate in quelle “fabbriche dell’elettricità” che erano le centrali, le facevano funzionare. Poi vidi gli stessi costruttori sfilare, da Sesto verso Piazza Duomo, in quell’imponente corteo silenzioso che Giuseppe Sacchi ci racconta. Un silenzio che fece per davvero un grande rumore, enorme impressione. I costruttori alzavano la voce con il silenzio. E la città ascoltava. Gli elettromeccanici, passato poi alla progettazione delle centrali termoelettriche, me li trovai fianco a fianco nei grandi cantieri di La Spezia, Brindisi, Tavazzano, Turbigo. E’ con loro, con questi operai d’avanguardia, che mi avvicinai al Sindacato. E, nelle affumicate riunioni della Camera del Lavoro di Milano, “bevevo” i discorsi dei mitici quadri operai delle Commissioni interne. I loro discorsi erano per me vere e proprie concrete lezioni di una Università che ora ha chiuso i battenti: l’Università della classe operaia. Poi, diventato io stesso Segretario generale degli elettrici, preparai proprio con gli elettromeccanici una grande manifestazione nazionale “elettrici ed elettromeccanici uniti nella lotta”, così lo striscione che la apriva e, a Legnano davanti alla Franco Tosi, mi fecero addirittura parlare al comizio prima di Bruno Trentin. Ma, adesso mi domando: tutte queste storie sono solo relegate nell’ “amarcord”, della dimensione nostalgica dei ricordi? C’è ancora quel fantasma che diceva “uniti si vince”? Ripeto convinto: c’è, bisogna solo saperlo vedere. Tornare ad ascoltare quest’altro silenzio.

3) Il settore metalmeccanico è, tuttora, la struttura portante del sistema industriale in ogni paese avanzato del mondo, dagli Usa alla Cina, dalla Francia alla Germania. Chi, come l’Italia, lo ha nel tempo ridotto inseguendo chimere, oggi deve far riferimento, ma solo come indotto, ad altre realtà di altri paesi: si potrebbe dire che siamo diventati i contoterzisti d’Europa. Purtuttavia, per la lettura autentica della nostra economia bisogna pur sempre guardare ancora alla Fiat o alla produzione d’acciaio. E chi lavora alla Fiat o nelle acciaierie o in Fincantieri? Tuttora sono decine e decine di migliaia di metalmeccanici. Non sono pertanto scomparsi, sono solo entrati in un’altra dimensione. Restano ancora, seppur ridotte, le grandi fabbriche – come Mirafiori o la Riva di Taranto – sono invece andate dissolte, questo è vero, le città-fabbrica, le cattedrali del fordismo come Sesto San Giovanni, La Spezia, Legnano. Oggi la gran parte dei metalmeccanici è polverizzata nella media, piccola o micro dimensione. Non è così in Usa e Cina, Francia e Germania. In Italia, in buona sostanza, operiamo nel campo degli effetti di gravi errori commessi in politica economica, inaugurati (questi errori) quando si pensò che la terziarizzazione spinta – il “nuovo che avanza” degli anni ’80, dopo la sconfitta nel referendum sulla scala mobile – avrebbe non solo compensato, assorbito, i reflui derivati dalla ritirata dall’industria, ma riqualificato tutta l’economia. Tragico abbaglio, ma ricordo amaramente l’irrisione di quanti, anche a sinistra, anche nel Pci, guardavano alle bandiere rosse che indicavano le fabbriche occupate dove gli operai resistevano – e che altro dovevano fare? – alla chiusura e ai licenziamenti collettivi: “operai sbagliati” arrivò a dire la prestigiosa Rinascita, echeggiando le teorie pre-sessantottine di Marcuse sull’ “operaio moneta fuori corso” che si sarebbero composte con quelle post-sessantottine di Toni Negri sull’ “operaio sociale”. Gli effetti di quegli errori sono oggi dispiegati plasticamente sotto i nostri occhi: nel nostro Paese le multinazionali vengono indisturbate a fare shopping in quel che resta del lavoro ricco, per poi però riportarselo oltralpe (come la Tyssen a Terni o la Abb a Legnano) e, di converso, gli industriali italiani che, con la svalutazione della lira ed il lavoro a basso valore aggiunto hanno fatto fortuna, oggi si delocalizzano, novelli cercatori d’oro, dal Nord-Est sempre più a Est, da Timisoara a Shangai. Gli industriali scappano, i lavoratori restano. Ma restano in tanti. Soltanto che non li si vuol vedere. Proviamo a contarli.

4) A tal proposito c’è un equivoco di fondo da smentire: quello, non irrilevante, della modalità stessa di calcolo. Sino a ieri venivano conteggiati come metalmeccanici, ma l’equivoco riguarda tutte le categorie industriali, quanti lavoravano nello stesso stabilimento. All’Alfa Romeo di Arese, quindici anni fa, erano all’opera 19mila persone e, tutte (operai, tecnici, impiegati), inquadrate nello stesso contratto: quello dei metalmeccanici. Oggi, che il lavoro di uno stabilimento viene esploso su tutto un territorio, attraverso processi di ramo d’azienda ed outsourcing, ed esploso anche oltre il territorio (ci sono realtà che hanno trasferito in India la contabilità ed il controllo di gestione), oggi vengono conteggiati come meccanici solo quanti mantengono quel contratto collettivo. Sempre all’Alfa, dove a seguito dei processi di contrazione industriale la popolazione operaia si è ridotta a 2mila persone (e sono quelli che Aldo Bonomi definisce come “i fantasmi operai nella città infinita”) ci sono ben cinque contratti collettivi e i metalmeccanici sono minoranza. Si potrebbe perciò riassumere così: “eravamo tutti metalmeccanici, continuiamo a fare quel lavoro, ma non siamo più conteggiati come tali”. Quanti, pertanto e tuttora, sostengono l’idea dell’estizione della classe operaia devono rendersi serenamente conto che l’illusione del tracollo è dovuta, come del resto autorevolmente sostiene Eric Hobsbawm “…agli spostamenti avvenuti al suo interno e dentro il processo di produzione, piuttosto che a un’emorragia demografica”. Ciò non toglie che il fenomeno – scorpori devastanti prima e poi frammentazione contrattuale dei soggetti residui – abbia comportato una lesione seria al senso di quella identità operaia e a quella coscienza dei propri interessi derivata dalla conoscenza, che era l’elemento di forza di quella gente, dai tempi di Giuseppe Sacchi sino alla metà degli anni ’80. Ai fini della ricomposizione della classe dispersa bisognerebbe muoversi in due direzioni:
– la prima, verso la ricomposizione dei contratti almeno sullo stesso sito produttivo. Se, ad esempio, ci si muove nella direzione dei distretti-poli tecnologici, ci dovrebbe essere un solo contratto di distretto, quale espressione locale del contratto nazionale che, sia chiaro, resta fondamentale. Il passo successivo è il contratto nazionale unico dell’industria con, appunto, integrativi di sito o distretto. Quello, ancora dopo, dovrà essere il contratto europeo dell’industria, perché è un non senso avere la moneta unica e i trattamenti sindacalidiversi o allineati al ribasso, come prefigura la Direttiva Bolkestein.
– la seconda è la riconquista appunto dei processi di conoscenza. Fondamentale oggi dove il filo rosso che in fabbrica collega il “fare” al “sapere” si è allungato a dismisura. Rilanciare le nuove 150 ore, si potrebbe ben dire nella fase in cui, appunto, ti sfugge il fine per il quale si lavora: perché la fabbrica è distribuita geograficamente (se prima era concentrata, poniamo, in due chilometriquadrati, oggi è esplosa talvolta su duemila chilometriquadrati e più); perché gli uffici del top-management sono spesso oltralpe e se poi chi ci mette i soldi è un “fondo” non capisci nemmeno dove trovarlo; perché i magazzini degli stoccaggi non ci sono più in quanto, con la produzione “just in time”, il magazzino è itinerante, viaggia a quattro ruote sulle tangenziali; e perché infine il lavoro intermittente è funzionale solo alla bassa qualità e, comunque, socialmente e politicamente, spappola identità e senso di appartenenza. Certo tutto questo ha un senso se si vuole riprogettare una fase nuova di una lotta di classe che oggi si subisce soltanto. Dai metalmeccanici si può ripartire. I metalmeccanici possono suonare la campana per tutti.

5) L’attacco politico e sociale è formidabile. Non lo si esorcizza con la sola battaglia d’aula in Parlamento. Solo mettendo in campo una categoria forte si può reggere all’incalzare di un’idea che, non contrastata, sta culturalmente sfondando anche nelle relazioni sindacali più consolidate come quelle tedesche. Basta vedere l’accordo Siemens, che rovescia il concetto delle 35 ore pagate 40 in quello delle 40 pagate 35. E sfonda appunto nei meccanici. Non a caso: passati lì il resto segue. L’idea che viene affermata è quella che ogni vincolo sociale sia da subordinarsi alle esigenze di competitività di ogni singola impresa, dalla piccola alla transnazionale. O, detto diversamente, viene fatta riapparire la concezione della società intesa come un insieme di individui in competizione l’un con l’altro, e di aziende-comunità che sul lavoro, nel mercato globale, concorrono con altre aziende-comunità. Ma, per essere vincente “fuori”, questa guerra commerciale vuole che il conflitto sia cancellato “dentro” l’azienda-comunità. In questa visione, alla quale non vedo però opposizione esplicita in settori vasti dell’Unione come del Sindacato, in questa visione il diritto stesso di coalizione, come ogni vincolo sociale come lo è, ad esempio, un Contratto nazionale, vengono percepiti solo come una turbativa rispetto a presunte regole di mercato che però, almeno a parer mio, si dichiarano a ogni pié sospinto ma non sono mai esistite. Se quell’idea vince si ritorna all’800, altroché Terzo Millennio ed era della conoscenza, dell’accesso e di Internet!. Ripartire dai metalmeccanici perciò, ma che vuol dire in concreto?

6) Significa, per prima cosa, aver capito perché i meccanici in Italia sono ancora tanti. Se per un attimo mi è ancora consentita la metafora militare: sono il nucleo portante dell’esercito del lavoro. Un nucleo grande. Ci ricorda infatti Luciano Gallino che sono “… più di un milione e ottocentomila e producono, ancora in Italia, immense quantità di manufatti: 27milioni di tonnellate di acciaio, oltre 20milioni di elettrodomestici, un milione di auto, decine di migliaia di macchine che sanno fare di tutto, da produrre altre macchine a inscatolare biscotti”. E sono ancora tanti perché hanno resistito a quanti, sostenuti da intellettuali di complemento, puntavano a realizzare stabilimenti dove il lavoro umano veniva completamente sostituito dai robot e a quanti, come alla Fiat di Melfi, avevano introdotto un computer che, sostituendo l’Ufficio Tempi e Metodi, decretava d’imperio con quale velocità muovere il braccio destro o la gamba sinistra, scandalizzando persino i giapponesi. Ma questi meccanici hanno capito e fatto capire che, è ancora Gallino a rammentarcelo: “… non c’è robot o automatismo che possa sostituire l’occhio e l’ascolto di un operaio, allenati a distinguere ciò che a un dato momento funziona bene o male in un impianto in marcia; né la sua manualità che sa individuare e riparare difetti di qualità del prodotto”. Hanno resistito perché hanno compreso e fatto comprendere che è l’uomo e non la macchina il cuore della fabbrica, smentendo i troppi specialisti del lavoro altrui che sostenevano invece che la mente operaia deve essere consultata il meno possibile. Se oggi l’industria italiana non è al tracollo, pur avendo subito colpi terribili, lo si deve solo, ripeto “solo”, a questi lavoratori industriali in carne ed ossa. Sintesi: il metalmeccanico non è una figura del passato. Ma ripartire da loro, lo ripeto ancora, che vuol dire?

7) Vuol dire, se si sostiene l’unità della classe in visione europea e, quindi, anche se si sostiene la Sinistra Europea, non certo come mediocre occasione di carriera per piccoli funzionari, vuol dire riaffermare attraverso una categoria la “cultura dei diritti sociali” che è nella storia dell’Europa, prima e dopo la parentesi terribile del nazi-fascismo. Vuol dire che si dichiara invece non esportabile dagli Usa la cultura opposta, quella delle “opportunità”. Vuol dire che la Fiom, per essere espliciti, può essere il traghettatore, più di Rifondazione, verso questa cultura dei diritti. Vuol dire provarsi a fare, o perlomeno a pensare, come alla fine degli anni ’50 quando tutto era dato per perso – e invece quei giovani dirigenti operai di allora come Sacchi, Nigretti, Costa, la Jone Bagnoli, Ricaldone si provarono – provarsi anche noi oggi a ricostruire, aggregare, rilanciare conflitto. Perché, vedete, alla fin fine la sostanza non è poi così diversa da quella dell’antica divisione del lavoro: pochi pensano, molti eseguono. Ora come allora. E i molti, se non si rassegnano a piegare la schiena, se non si adeguano a restare flessibili per la vita depredati dai fondi pensionistici privati, devono riprendere coscienza della comunanza del proprio destino. Prima, è vero, era forse più facile perché si era in mille nello stesso capannone e nella stessa mensa, oggi è assai più difficile perché quei mille sono dispersi su mille chilometriquadrati e non si vedono. Riproviamo, pur in questo contesto di desocializzazioni.. E’ difficile ma quando mai abbiamo avuto a disposizione strade facili?