La storia del corporativismo è piena di anomalie, di equivoci e di vere e proprie stravaganze. Se èunacaratteristica costante (e pienamente motivata) della storiografia sul fascismo quella di procedere al raffronto tra programmi e realtà, fra mito, ideologia e traduzioni concrete di questi, nel caso del corporativismo tale procedimento è in certa misura obbligato, perché lo scarto tra magniloquenza delmito e pochezza delle realizzazioni pratiche è talmente accentuato da autorizzare quasi la liceità di due storie parallele, delle quali lameno importante può finire per essere ritenuta legittimamente la seconda,mentre la prima, la storia del mito, è probabilmente quella che ha maggiormente inciso nella storia del fascismo.(…) A ogni buon conto, è bene precisare subito che per tutto l’arco del ventennio si parlò di corporativismo per designare due distinte accezioni del concetto: l’una legata alla disciplina dei rapporti di lavoro, l’altra all’ambito dei rapporti economici in senso lato, all’orientamento e alla gestione dell’economia. Nell’ideologia corporativa i due diversi terreni di esplicazione non erano assolutamente in contrasto, ma si ponevano anzi come livelli inscindibili: il secondo non era pensabile senza il primo, ma il primo era interpretato dai corporativisti come un gradino preparatorio del secondo. Invece permolti fascisti – o fiancheggiatori del fascismo – tiepidi nei confronti del dottrinarismo corporativo, l’aver raggiunto il primo gradino era ciò che contava realmente, e ritenevano pericoloso o semplicemente superfluo avventurarsi oltre. La compressione dei rapporti sociali ottenuta con la legge del 3 aprile 1926 era per la grande maggioranza della classe dirigente italiana il risultato che si era voluto conseguire, e tutto il resto era chiacchiera inessenziale o gravida di pericoli, tollerabile solo se rimandabile a quel «lontano domani» in cui nei primi anni del fascismo Mussolini confinava la possibile creazione di una nuova economia. Va ricordato, infatti, che sul terreno della disciplina dei rapporti di lavoro il corporativismo fu tutt’altro che un bluff. Se pure all’opera degli organismi corporativi veri e propri si affiancarono, anche qui, «doppioni» e organismi di altra natura, non si ebbe in questo caso lo scavalcamento o la completa esautorazione che si sarebbero verificati sul terreno più ambizioso del controllo e dell’orientamento dell’economia. (…) Nel lessico contemporaneo coesistono e si accavallano distinte e contrastanti accezioni del «corporativismo». Con questo termine si possono indifferentemente designare l’ideologia e le parziali realizzazioni storiche del fascismo italiano (o di altri regimi autoritari dell’Europa fra le due guerre), come le dottrine e le teorizzazioni di stampo medievaleggiante nate nell’ambito del pensiero sociale cattolico in opposizione allo Stato liberale e ai «valori» che parevano propri della società industriale; al tempo stesso, si può far riferimento, come è avvenuto in maniera sempre più diffusa nella letteratura politologica, a forme specifiche di «relazioni industriali » a base «tripartita», nelle quali lo Stato si affianca a capitale e lavoro permediare i conflitti e orientare soluzioni. Infine, nell’uso corrente e quotidiano, il termine «corporativismo» viene usato, soprattutto in Italia, per designare (e implicitamente deprecare) il comportamento di gruppi che simuovono in contrasto con l’interesse generale della collettività, o tengono questo in minimo conto, e appaiono intenti al conseguimento di vantaggi immediati ed esclusivi per la propria categoria. Va notato che è un’accezione, quest’ultima, che è singolarmente di segno opposto a ciò che per «corporativismo» si intendeva durante il ventennio fascista, laddove l’ideologia del corporativismofascista implicava che l’accento venisse volto, inmaniera uniforme e talora ossessiva, sull’interesse «superiore» dello Stato che doveva in ogni caso (e per assioma) prevalere sul particolare e sul categoriale. Si può ben dire che nella storiografia vi è stata una vera e propria rimozione del significato del corporativismo nella cultura italiana. In anni più recenti si è cominciato ad ammettere, sul piano specialistico della storia delle dottrine economiche, che il corporativismo costrinse in qualchemodo gli economisti italiani – o una significativa parte di essi – ad affrontare i problemi connessi alle trasformazioni dell’economia capitalistica negli anni fra le due guerre e, in particolare, dopo la crisi del 1929, per cui il corporativismo divenne a volte unasorta di metafora sotto la quale prese corpo un tormentato approccio della cultura italiana ai problemi dell’economia mista. (…) Più in generale, va detto che la diffusione capillare dell’ideologia corporativa rappresentò uno degli aspetti caratterizzanti della cultura media del cittadino italiano, con effetti duraturi e particolarmente insidiosi proprio perché generalmente anonimi e sotterranei. La politica culturale del fascismo giocò su questo terrenouno dei suoi tentativi più ambiziosi e conseguì forse i maggiori risultati. Il corporativismo assunse – soprattutto presso l’opinione pubblica occidentale, ma anche in Italia – una funzione di legittimazione sul piano sociale del potere fascista e della dittatura instaurata dal regime: una sorta di compensazione, attraverso la prefigurazione di una società più armonica e coesa, pacificata dall’alto, della soppressione delle libertà elementari. Manegli anni fra le due guerre il corporativismo riuscì ad attingere ad una reale attualità: perché si inseriva organicamente e coerentemente nel solco di unacultura della collaborazione di classe, della conciliazione, della pace sociale, che era all’ordine del giorno da decenni in Europa e che era uscita rafforzata dai contraccolpi della prima guerra mondiale e dell’Ottobre sovietico; e, in una prospettiva congiunturale, perché si inseriva nella crisi del pensiero e del sistema liberale, resi ancora piùmanifesti dalla grande crisi. Proprio quest’ultima rilanciava in tutto il mondo occidentale e poneva all’ordine del giorno la ricerca di un quid medium tra gli opposti estremi del liberismo tradizionale e della collettivizzazione sovietica, ricerca rispetto alla quale il corporativismo vantava la propria primogenitura e la propria efficacia propagandistica quale «terza via» offerta all’Occidente sconvolto dal crollo del vecchio mondo e dei vecchi valori. In ogni caso il successo del corporativismo era comunque legato a una prospettiva antiparlamentaristica e intimamente «antipolitica», che contemplava l’abbandono drastico delle forme di rappresentanza elaborate nel processo di costruzione dello Stato liberale. (…) Sostituire in blocco la rappresentanza politica con la rappresentanza degli interessi organizzati costituiva anzi, potremmo dire, la sublimazione dell’antipolitica: obiettivo maipienamente conseguito, e neppure a dire il vero fermamente perseguito, perché il fascismo era in realtà, e diveniva sempre più col tempo, «politica» anch’esso. Dava luogo infatti, per la prima volta nella storia italiana, a un vasto e diffuso ceto stabile di professionisti della politica e del sindacalismo, stipendiati dallo Stato. Mentre si creava una «nuova politica», pervadente e tendenzialmente onnicomprensiva, l’obiettivo della «fine della politica», o del superamento delle tradizionali forme di rappresentanza in cui storicamente si era delineata, era comunque adombrato e propagandato, con una «radicalità» non raggiunta nell’esperienza italiana da alcuna altra dottrina. (…) Possiamo dire che vi furono tre miti in lotta fra le due guerre: liberista, collettivista e corporativo, e che la loro lotta segnò la storia politica e ideologica della prima parte di questo secolo. Nel corso degli anni Trenta il corporativismo poté sembrare amolti la dottrina destinata ad imporsi sulle rigidezze contrapposte dei sistemi preesistenti, e per alcuni l’unica via di salvezza per un occidente capitalistico, da tempo ormai segnato dalla perdita di consenso di fronte all’avvento della società di massa, che doveva irrobustirsi e correggere le sue anomalie di sviluppo, dando voce agli interessi organizzati nella società che non avevano mai trovato espressione compiuta nel sistema politico liberale. (…) In realtà, se pure è estremamente sensato rilevare come il fascismo fosse sorto e avesse raggiunto il potere in contrapposizione diretta al movimento socialista, è pur vero che la rinascita e il consolidarsi del mito corporativo, nelle particolari forme da esso assunte nell’Italia fascista, sono impensabili facendo astrazione dalla crisi della società liberale e dall’obsolescenza dei concetti fondamentali della sua visione dei rapporti sociali e dei rapporti fra governanti e governati. Il fatto stesso che lentamente e per germinazione parallela, senza far riferimento a nuovi «classici» del pensiero politico degni di memoria, anzi sovente nell’ossequio sincero a testi più o meno «sacri» reinterpretati e attualizzati, si fosse venuta costituendo una communis opinio profondamente estesa e radicata, che sostituiva il concetto della necessaria interdipendenza degli interessi di categoria alla visione conflittuale dei rapporti di classe, propria tanto del marxismo quanto della più radicale apologetica liberista, era di per sé un sintomo del decadimento e del corrompimento che pareva a molti irreversibile della visione del mondo scaturita dalla «duplice rivoluzione». Anche la socialdemocrazia europea sarà profondamente investita da questa mutazione concettuale, accostandosi a un atteggiamento di fondo già tipico e originario delmovimento cattolico;ma sul versante italiano l’aspetto più evidente e rilevante appariva l’arcaicità dell’esaltazione della «bellezza della lotta », nella quale i contendenti affinano le loro armi e maturano con reciproco vantaggio, in un clima nel quale era ormai predominante la convinzione che la lotta, anziché bella e corroborante, fosse la peggiore iattura che la compagine nazionale dovesse evitare e, soprattutto, un lusso che la società non poteva più concedersi: di qui il carattere postumo, più che «inutile», della «predica » che Gobetti commissionò a Luigi Einaudi. Per la verità il corporativismo fascista, nonostante il significato implicito in formule quali «terza via» o «viamediana », non tese mai a presentarsi come un apparato di mediazione fra socialismomarxista e liberal-capitalismo, al pari della socialdemocrazia e del pensiero sociale cattolico, quanto come un superamento di entrambi, e nel fatto una struttura autoritaria sovraimpressa a una società liberal-capitalista, un’armatura che consentiva ad essa di sopravvivere, e anche di convincersi che l’armatura in questione potesse venire dimessa senza alcuna complicazione, superata la fase dell’emergenza. Forse non è del tutto inutile ricordare che nella realtà il corporativismo, malgrado la sua propaganda, non si configurò mai nei fatti come una «fuoruscita », sia pure tendenziale, dal capitalismo, ma si inserì piuttosto nell’alveo del «capitalismo organizzato» (e rafforzato), che teneva conto degliammaestramenti del deperimento prima, e della crisi, poi, del sistema liberale, quanto dei termini in cui si era configurata la sconfitta delmovimento operaio. (…) La «forza» e la relativa chiarezza di obiettivi verranno essenzialmente dalla capacità di unificazione politica della borghesia conseguita dal fascismo nelle forme di un partito di massa originale e «moderno», e dall’acquisizione di un programma di fondo, quello dei nazionalisti, che oltre ad aver rappresentato l’unica alternativa borghese al liberalismo, incarnava le propensioni autoritarie e imperialistiche che erano divenute nel corso della guerra una componente largamente vitale e invadente nella compagine statale. Si può certamente affermare che una tendenza alla conciliazione di classe, da realizzarsi attraverso istituti appositi gestiti o garantiti dallo Stato, percorra in quegli anni tutti gli schieramenti politici e culturali tradizionali, e non risulti estranea a settori significativi del movimento operaio, come attesteranno le vicende successive di Rinaldo Rigola e del suo gruppo. Ma i nazionalisti (e Alfredo Rocco in particolare) saranno gli unici che riusciranno ad assegnare un fine esterno chiaramentepercepibile alla costruzione sociale verso la quale confusamente convergono in tanti, collegando il corporativismo «diffuso» alle propensioni e alle vocazioni imperialistiche della borghesia italiana. Non era questo per la verità un motivo assolutamente inedito: la simbiosi nazionalcorporativa può facilmente venire rintracciata risalendo indietro nei decenni.Ma ora per la prima volta essa si presentava in formapopolare e realizzabile,non più unicamente bandiera di gruppi di pressione, ma fatta propria, patrocinata e, al caso, imposta dall’autorità di uno Stato che assumendo questo programma si avviava a divenire totalitario. (…) Ogni discussione sulla «modernizzazione » attribuita al fascismo, sia pure arricchita da aggettivazioni volte a precisarne il senso («reazionaria», «autoritaria », o talvolta «totalitaria») non può prescindere daun raffronto comparativo con i processi in atto in tutto il mondo occidentale negli anni tra le due guerre. Su questo terrenononsarà difficile notare il contrasto, talvolta l’ambivalenza o l’ambiguità, che intercorre tra ideologie e programmi da un lato e adattamento empirico alle trasformazioni sociali ed economiche. In campi assai disparati: da quello della accettazione della società di massa e dalla volontà di governarne dall’alto gli sviluppi, a quello dell’avvio di una corrosione della tradizionale centralità delmondo rurale e contadino non frenato dalle ideologie ruraleggianti, allo stesso ruolo della donna nella famiglia, «sposa e madre esemplare» in una famiglia che si vuole sempre più prolifica, madi fatto ormai progressivamente inserita nel mondo del lavoro e delle professioni. Tutto il fascismo in quanto fenomeno internazionale è a ben vedere, molto al di là del caso italiano, segnato da questo intersecarsi, mai pienamente composto e risolto, tra modernità e tradizione idealizzata o «reinventata». Di «questa» particolare forma di regime, impensabile nei suoi caratteri specifici fuori della sua epoca, il corporativismo costituiva la coerente e funzionale ideologia, assaipiù che la sfuggente e mutevole intelaiatura istituzionale.