Medio Oriente, tutti i no che è doveroso dire a Israele e Stati Uniti

L’orrendo eccidio di Cana ha polverizzato la Conferenza di Roma per il Libano: non solo ha compattato e ulteriormente infiammato il mondo arabo, ma ha ancor più isolato i governi di Stati Uniti e Israele ai margini della comunità internazionale. Esso ha scosso anche le coscienze dei più cauti, materializzando ancora una volta ciò che usualmente si intende con terrorismo di Stato. Quelle vittime inermi cadute sotto le bombe israeliane sono le ultime di una interminabile lista, che in questi giorni ha continuato ad allungarsi sul fronte libanese così come su quello – temporaneamente dimenticato dai media – della striscia di Gaza. Non occorreva possedere alcuna arte divinatoria per intuire i micidiali effetti a breve che sarebbero scaturiti dal rifiuto da parte degli Usa – in sintonia con il governo israeliano – di aderire ad un appello per il cessate il fuoco, inutilmente proposto da tutti gli altri: si è così sancita la condanna ad ulteriori sofferenze per un Paese già prostrato da centinaia di vittime civili e centinaia di migliaia di sfollati. Ma, soprattutto, tale rifiuto aveva già accreditato la peggiore delle interpretazioni al riguardo delle altre proposte partorite dalla conferenza. Stante la drammatica emergenza umanitaria, che la “comunità internazionale” avanzasse una richiesta “pressante” a Israele perché non si opponesse all’apertura temporanea di corridoi umanitari è cosa che rende conto del disastroso stato del mondo. Come dire, neanche questo? Ora, dopo l’ignobile mattanza, Ehud Olmert concede una tregua di qualche ora. Ai suoi alleati resta tuttavia l’agghiacciante imbarazzo di dover “ridurre il danno” umanitario nel momento stesso in cui si decreta la propria impotenza ad impedire nuove devastazioni e nuovi morti.
In tale contesto, viene ad assumere una luce sinistra la stessa proposta di invio di una forza internazionale sotto egida Onu e con mandato “robusto”, su cui continuano a insistere Stati Uniti e Gran Bretagna con l’avallo di Israele. In proposito, non possono essere alimentati equivoci. I promotori non sono interessati alla presenza di un vero e proprio contingente di pace, di una forza di interposizione non belligerante che si aggiunga con il medesimo mandato al già presente manipolo di osservatori disarmati dell’Onu, sprezzantemente apostrofati come “ufficiali con binocoli”. La richiesta è quella di una forza militare di 10-15 mila uomini, con mandato per l’appunto “robusto”, che sia in grado di imporre l’applicazione della risoluzione Onu 1559 concernente «lo smantellamento e il disarmo delle milizie» operanti in territorio libanese. L’obiettivo della missione di “stabilizzazione” coincide dunque con il disarmo di Hezbollah, una forza politica organizzatasi militarmente sei anni or sono per contrastare l’occupazione israeliana del Libano, saldamente radicata nella società nonché presente nel Parlamento e nel governo di questo Paese. Va ricordato che Hezbollah concepisce il mantenimento della sua struttura militare come tutela dell’integrità territoriale libanese, dopo il ritiro dell’esercito israeliano dai territori occupati, e come risposta alle persistenti violazioni da parte di quest’ultimo dell’accordo di pace a suo tempo siglato (protrarsi dell’occupazione della zona di Shebaa, continui sconfinamenti via mare e via aria, infiltrazione in territorio libanese di agenti con finalità eversive). Ma occorre aggiungere che anche tutte le altre forze politiche del Libano hanno sempre dichiarato la questione risolvibile esclusivamente sulla base del consenso degli interlocutori interni. La strage di innocenti a Cana ha ulteriormente enfatizzato il risentimento contro l’aggressione esterna: non a caso il premier Siniora ha ringraziato Hezbollah per aver difeso il territorio nazionale. Assecondare i disegni di Usa e Israele e acconsentire al compito di disarmare Hezbollah equivarrebbe a scatenare un incendio non meno micidiale di quelli già suscitati in Iraq e Afghanistan. E’ ora di dire basta a questo delirio espansionistico e criminale. E, quanto al nostro Paese, è ora di uscire dall’equivoco: distinguendo senza sofismi tra pace e guerra e restando anche in questa materia risolutamente nel solco della nostra Costituzione. Occorre provare testardamente a costruire un consenso internazionale attorno a un vero percorso di pace per il Medio Oriente: chiedendo che siano applicate tutte le risoluzioni dell’Onu, anche quelle che da anni imporrebbero ad Israele il rilascio di prigionieri libanesi e palestinesi, nonché il ritiro dal Golan e dagli altri territori occupati dal 1967. Chiedendo di muovere finalmente un passo in direzione della soluzione della questione palestinese: sapendo che l’obiettivo dei “due popoli, due Stati” non può continuare ad infrangersi contro la strabica realtà di uno Stato, quello israeliano, che lega la sua esistenza al dispiegamento della sua massima potenza distruttiva e di un popolo, quello palestinese, ridotto ai limiti di ogni umano patimento. La comunità internazionale deve cominciare a muoversi, prima che sia troppo tardi. Se non lo facesse, il governo italiano ha il dovere – politico e morale – di cominciare a proferire con determinazione i suoi (i nostri) No.