Media, la media italiana

L’Italia è il paese europeo in cui si guarda più tv (tradizionale, perché quella digitale non decolla) e si usano più celleluari, e quello in cui si leggono meno libri e meno quotidiani, si naviga meno in rete, si ascolta meno radio. I dati vengono dal VI rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione (promosso da H3g,Rai, Mediaset,Mondadori, Ordine dei giornalisti, Telecom) e sono eloquenti – e disperanti – proprio per la forbice fra la televisione e gli altri media. E’vero infatti che in Gran Bretagna il pubblico della tv tradizionale (95%) supera di un punto quello italiano (94%), ma in compenso lì il pubblico della radio è all’80% mentre qui è solo al 63%, lì i lettori di quotidiani e libri sono rispettivamente il 78 e il 75% mentre qui sono il 69 e il 55%, lì naviga in rete il 61% della popolazione e qui il 38%. Il paese con il profilo più vicino all’Italia è la Francia,dove però la televisione tradizionale scende di 11 punti e la radio sale di 17. E i capitoli per noi più scandalosi restano quello di Internet, che ci colloca nel secolo scorso, e quello dei libri, che ci consegna l’oscar dei più ignoranti del continente: in Gran Bretagna e in Germania leggono i tre quarti della popolazione, in Francia e in Spagna i due terzi, in Italia solo poco più del 50% (ed è già motivo di soddisfazione che la soglia del 50% sia stata finalmente superata).
Giuseppe De Rita, presentando il rapporto, commenta che esso è indicativo dello stato di fragilità in cui versa la cultura europea, per ragioni che scavalcano i confini del continente: «è crisi dell’occidentalizzazione», ovvero di una produzione culturale sempre più «virtuale» e priva di contenuti. Sarà, ma che la crisi sia del modello occidentale non spiega il gap fra l’Italia e il resto dei paesi europei, e non conforta. Scendendo nel dettaglio del rapporto si scopre che oltretutto la quasi totalità dell’immenso pubblico di telespettatori italiani si incolla al piccolo schermo per informarsi (ma attenzione: nell’informazione è compreso tutto, dallo tsunami all’ultimo flirt dell’ex fidanzata dell’ex calciatore), ma solo il 42% se ne va a letto soddisfatto delle informazioni che ha ricevuto. Però a informarsi meglio passando agli altri media non ci pensa, visto che chiedono informazione alla radio solo il 47% degli italiani, a Internet il 29%, ai libri il 28%, tutti con maggiore soddisfazione degli utenti televisivi. Stessa storia per l’approfondimento: i più lo cercano senza trovarlo in tv, ma la tv permane nella sua postazione di medium sovrano alla faccia dei pochi che lo cercano, e lo trovano, negli altri media.
Più che alla virtualizzazione della cultura occidentale, viene da pensare a una sorta di rincretinimento o di narcotizzazione di massa nazionale. Parlamento e governo farebbero bene a prendere sul serio questo tipo di sonde sulla società italiana invece di scrutare con acribìa solo i sondaggi elettorali: siamo molto, ma molto lontani da quella «società della conoscenza» su cui solennemente si impegnò il governo di centrosinistra nel 2000 a Lisbona. E non è solo colpa della tv: non si arriva a queste cifre senza un decadimento della formazione scolastica e universitaria (nonché di quella di base che si riceve in famiglia e di quella che un tempo si riceveva nelle sedi della politica diffusa, dai partiti ai movimenti). E non si ribaltano queste cifre senza investire con convinzione nel sistema dell’istruzione ben più delle percentuali ridicole di Pil che attualmente vengono investite.
La politica del resto non è esente da questo declino culturale: ne è direttamente e massicciamente investita. Un altro rapporto, firmato da Giancarlo Fornari e pubblicato da Ediesse, fa il punto sull’ Imbarbarimento del linguaggio politico (questo il titolo) attraverso il monitoraggio dell’ultimo anno di schermaglia politica. Dall’ultima campagna elettorale all’inflazione di intercettazioni sulle varie Bancopoli, Calciopoli e Sexopoli ne abbiamo veramente sentite di tutti i colori. E anche in questo caso, il piccolo schermo detta il modello, il tono e la sintassi, ma non tutto parte dal piccolo schermo. C’è un filo di decomposizione che marcia più in profondità, e forse è solo per non vederlo che guardiamo tanta tv.