Matteo Bartocci

Il buono, il brutto e il cattivo. In questo caso, si parla dei tre «liberaldemocratici» Natale D’Amico, Lamberto Dini e Giuseppe Scalerà. Per un «diniano buono» (l’ex parisiano D’Amico) che dice: «Andiamo avanti migliorando la finanziaria», ce n’è uno che è a votare il governo non avrebbe nulla da perdere (Scalerà). E poi c’è il «rospo», che non fa passare giorno in cui ripete il suo disgusto verso la sinistra «radicale» e rivendica «mani libere» in parlamento: «Tutti gli emendamenti del governo vanno nella direzione di accomodare nuove spese. Io l’ho già detto: se sarà così, non intendo votarla», ha detto Dini domenica.
Messa così, tutto lascerebbe pensare che l’attuale presidente della commissione Esteri ha già deciso di passare con il centrodestra. Ma il suo nervosismo è palpabile, basta vedere come cammina tra gli arazzi di palazzo Madama, irascibile, cupo, tormentato. Il problema è che l’ex presidente del consiglio non sa se il suo «tradimento» sarà determinante o meno a far cadere il governo. Al voto finale sulla finanziaria per Dini non ci sarebbe nulla di peggio che accendere la fucina rossa e sentir certificare il presidente Marini: «Il senato approva». Ha già trattato il suo futuro in colloqui riservati sia con Prodi (si parla della Difesa) che con Berlusconi (la presidenza del senato). E’ la decisione della vita. «Dini rappresenta il peggio della politica», commenta senza mezzi termini il rifondarolo Giovanni Russo Spena.
Per il verdetto bisognerà attendere domani notte, quando la finanziaria dovrebbe lasciare palazzo Madama per andare al secondo giro di boa della camera. Finora su oltre 200 votazioni l’Unione non è mai andata sotto. E’ quasi un record per un senato ridotto a una giungla in cui fare dei conti è impossibile per chiunque.
Solo Berlusconi è sicuro della «spallata». Il centrosinistra, con la lettera di Nino Randazzo resa nota ieri, ha sia rivelato che respinto la campagna acquisti del Cavaliere. Ma non è detto che altri senatori siano più fedeli del giornalista eletto in Oceania. Nel mirino Domenico Fisichella, ex fondatore di An ed ex Margherita ora iscritto al gruppo misto. Ma anche i «dissidenti» di sinistra Rossi e Turigliatto e, soprattutto, i senatori a vita. Sulla carta il centrodestra ha 156 voti. Ai quali potrebbe aggiungersi il no di Francesco Cossiga (contrario alla commissione di inchiesta sul G8).
Fernando Rossi (ex Pdci), al termine di una lunga battaglia emendativa, dovrebbe votare sì al voto finale sulla manovra. Più sfumato il comportamento dell’ex Prc Franco Turigliatto. Ieri ha dichiarato che al dunque potrebbe anche uscire dall’aula. Come fece del resto sulla mozione D’Alema sulla politica estera che affossò il governo Prodi all’inizio dell’anno.
Senza Turigliatto, in ogni caso, l’Unione ha 157 voti. Decisivi come sempre saranno i senatori a vita. L’Unione può contare su Colombo, Scalfaro e Levi Montalcini (questi ultimi partiranno per gli Usa giovedì, da qui la decisione di votare anche in notturna mercoledì). Non basterebbero per arrivare a quota 161. L’incubo dell’esercizio provvisorio però potrebbe convincere sia Ciampi (assente da tempo) che, forse, Giulio Andreotti.
Oggi il rush finale. Si inizia subito con un nodo spinoso. L’articolo 46 sui farmaci che prevede l’indicazione del principio attivo nelle ricette al posto del nome commerciale delle medicine. Una norma positiva, utile per i pazienti, ma finita nel mirino di Federfarma e su cui il lobbying è serrato. I «diniani» non sono insensibili. Un altro «fuoriuscito» dall’Ulivo, più vicino ai consumatori come Roberto Manzione, ne fa invece una pregiudiziale per il voto sulla manovra. Un altro rebus dopo quelli sui ticket, i precari di stato e il tetto agli stipendi d’oro nella pubblica amministrazione. Finora la maggioranza ha sempre trovato la quadra. Ma il tempo stringe sempre di più.