Testimonianza di Mohammad Isaq, 15 anni, ferito al braccio sinistro e all’orecchio destro: «Viaggiavamo tranquilli. Di colpo, sparavano dappertutto. Abbiamo bloccato la macchina, gli americani ci hanno superato e hanno cominciato a sparare addosso anche a noi. Erano tre Humvee e sparavano tutt’e tre».
Testimonianza di Tur Gul, 38 anni, colpito due volte alla mano destra: «Correvano e tiravano. Hanno aperto il fuoco su 14 o 15 macchine che stavano passando. Accostavano e tiravano su chiunque, fosse in auto o a piedi».
Testimonianza di Ahmed Najib, 23 anni, preso al fianco destro: «Dal primo blindato americano hanno sparato per fermarci. Ci siamo fermati, così il mitragliere del primo mezzo in colonna ha smesso. Ma è spuntato il mezzo dietro ed è stato lui a spararci contro. Invertivano il senso di marcia e sparavano da una parte, poi giravano di nuovo e sparavano da un’altra. Ho anche visto che colpivano un contadino». Testimonianza del fratellino di Ahmed Najib, 2 anni: una ferita di striscio sulla guancia.
Pasticciaccio brutto a Jalalabad. Lo choc dell’assalto suicida, la paura d’essere finiti in un’imboscata. La licenza d’uccidere di troppi soldati nervosi, nelle province a rischio talebano. La certezza della quasi impunità in una missione di pace che ogni giorno spara. Il risultato è una mattinata di follia, blindati che corrono impazziti per sei chilometri d’autostrada e all’impazzata tirano su qualunque cosa si muova. Hanno fatto una strage di civili — otto o secondo altre fonti sedici morti, più trenta feriti —, hanno scatenato una protesta di piazza e hanno finalmente strappato il velo dei silenzi su quel che davvero accade nella parte d’Afghanistan «dove vive la metà della nazione — analizza il Senlis Council, monitor indipendente sul dopoguerra — e il controllo, o almeno l’influenza dei talebani, è totale».
Legittima difesa o rappresaglia? Enduring Freedom, Nato e governo di Kabul promettono un’inchiesta. Ma portavoce della Coalizione a parte, e neanche tutti, la gran quantità degl’indici punta «sugli americani che hanno perso la testa» (Mohammad Khan Katawazi, governatorato di Nangarhar). La cosa certa è che stavolta ci sono andati tutti più pesante. A cominciare dai filotalebani di Hezb-e-Islami, che rivendicano l’attentato e non si sarebbero limitati al «solito» kamikaze scagliato sulla strada che va verso il Pakistan, a 45 km da Jalalabad: quando ieri mattina alle 9 il suicida Haji Insanullah ha pigiato l’acceleratore del minibus ed è esploso in mezzo alla colonna militare, ferendo un soldato, secondo il portavoce Isaf sarebbe cominciata una sparatoria tutt’intorno. Il particolare non è confermato dalla polizia afghana, anche se un portavoce del governatore di Jalalabad parla di «attacco complesso» e gli americani sono decisi: «È stata una vera imboscata — dice a Kabul il tenente colonnello David Accetta —. Un lungo scambio a fuoco, i tiri venivano da più direzioni. Siamo dispiaciuti per la morte d’innocenti cittadini, ma questo è il prodotto d’un atto vigliacco compiuto da estremisti talebani».
Chi abbia contribuito di più a questo risultato, si vedrà. «I civili ammazzati sono colpa della risposta esagerata degli americani», dice Abdul Ghafur, della polizia locale. Lo ripete Zemeri Bashary, ministero dell’Interno: «La maggior parte delle vittime è colpa dei militari». Ne sono certe le centinaia di persone furiose che dopo la strage si sono buttate in strada, a lanciare sassi e a gridare «morte all’America!», «morte a Karzai!». D’accordo, la provincia ribolle da quando è cominciata la campagna di sradicamento dell’oppio e ieri è stata una domenica nera: nella provincia di Helmand, un colpo di mortaio ha ucciso due inglesi del Commando 29 di Royal Artillery.
Questo però non autorizza gli imbarazzi nelle versioni fornite sulla sparatoria, con un portavoce americano che all’ inizio parla addirittura di 16 morti e un suo collega, Tom Collins, che alla stessa ora «non sa» se vi siano vittime civili. Un reporter dell’Afp racconta d’aver visto almeno sette- otto auto completamente traforate di proiettili. Il direttore dell’ospedale di Nangarhar, Ajmel Pardus, dice che «alcuni feriti sono stati colpiti anche da più pallottole».
Che i soldati avessero qualcosa da nascondere, lo spiega un altro episodio: a due giornalisti dell’Ap, i marines hanno strappato di mano le macchine fotografiche e telecamera. «Avevo ripreso un’auto con sopra quattro cadaveri — dice Rahmat Gul —, un soldato m’ha minacciato con un pugno di mollargli il materiale. Gli ho risposto che ero stato autorizzato da un ufficiale. Niente: l’ha preso e l’ha cancellato». Sabato, sempre che sia vivo e lotti sempre assieme a loro, è il compleanno di Osama Bin Laden. 50 anni. Un regalo così, aspettando la guerra talebana, forse non se l’aspettava nemmeno lui.