Maselli, un regista dalle braghe corte al marxismo

«Per alcuni artisti la dimensione politica è qualcosa di aggiunto, come l’intonaco di una bella stanza che magari col tempo inizia a sfaldarsi qua e là, fino a perdere ogni contatto con la parete. Per Citto invece la politica è stata un muro portante, così solido e radicato da farlo rimanere là dove è sempre stato, senza alcun tentennamento, lontano dai grandi esodi che purtroppo hanno segnato il tempo». Sono le parole di un amico di vecchia data, saldate al vincolo di una vicinanza culturale e affettiva, quelle con cui l’altra sera Furio Colombo ha voluto scheggiare il ritratto di un signore del cinema italiano come Francesco Maselli. Lo ha fatto all’interno di un discorso che ha capottato la clessidra biografica, tanto da paragonare la vita del regista a una sorta di sinfonia rovesciata: nata nel terzo decennio del secolo scorso già vecchia per la precocità delle prime scorribande politico-intellettuali e poi lanciata in un progressivo ringiovanimento che lo ha fatto approdare alla fertile «bambinità» degli anni più maturi. Del resto, difficile pensarla diversamente quando si ha di fronte uno come Citto, venuto su tra le ginocchia dello «zio» Pirandello in mezzo al meglio della cultura dell’epoca, svezzato già in braghe corte agli scandagli marxisti e pronto fin dal tempo delle scuole medie a issare un fronte giovanile di libertà contro l’invasione nazi-fascista. Se poi a questo aggiungi i passi successivi, tutto si fa sempre più «serio e leggero», attraverso quel salto al cinema che ha trovato le sponde di riferimento in un triangolo nobile composto da Antonioni, Zavattini e Visconti. Questi, in fondo, i tre padri putativi in cui è possibile riverberare l’intera filmografia maselliana, peraltro autonoma e compatta nelle volontà d’indirizzo su cui si è conformata. Dagli Sbandati del 1955 che lanciano in veste inedite una giovane Lucia Bosé fino ai grigiori fascisti e moraviani degli Indifferenti (1964), passando per il Volonté del Sospetto, la Lettera aperta a un giornale della sera su su fino al recente Frammenti di Novecento (2005). Tutte pellicole che in questi giorni il festival dei due mondi di Spoleto lascia scorazzare sui suoi schermi, all’interno di una retrospettiva dedicata al regista romano, cui si affianca pure una mostra sui suoi scatti fotografici. E a tagliare i nastri di questo doppio omaggio, proprio qualche ora prima che la città umbra accendesse lo scorcio longitudinale davanti a piazza del Duomo per il consueto concerto inaugurale della manifestazione, ecco giungere lì, fianco a fianco al buon Citto, due compagni di avventure come Furio Colombo e Tullio Kezich. E se il secondo, nelle forme di un’intervista pubblica, ha voluto inquadrare i vettori-guida dell’opera del regista, passeggiando nella miniera di aneddoti che ne costellano la biografia, all’ex-direttore dell’Unità è toccato il compito di cesellare un vero e proprio racconto introduttivo con cui ha voluto sottolineare quelle «affinità elettive» che hanno cementato il loro profondo legame. «Oggi c’è sempre gente – ha spiegato Colombo – pronta a dirci di smetterla di parlare di cose vecchie come il fascismo, perché ormai siamo tutti uguali ed è arrivato il tempo di stringerci la mano. Ma noi, proprio come Citto, siamo dei gran testoni e continuiamo a parlarne, perché le persone si possono perdonare, ma le idee no, soprattutto quelle che hanno portato alla dissoluzione dell’Europa, innescando persecuzioni politiche e promulgando l’obbrobrio delle leggi razziali».
Troppo forte e urgente, insomma, la volontà di difendere quella dignità e quel decoro così faticosamente conquistato dopo la lunga notte della dittatura e della guerra. Tanto più che se c’è qualcosa che nel cinema di Citto non manca mai è proprio quel gioco di riflessi che allarga le prospettive, agganciando le sorti del singolo a quelle dell’intera collettività. «Nei suoi film l’individualità non è mai staccata dall’insieme che le fa da sfondo, le storie d’amore non si scindono mai dalle spire della storia sociale e questo perché al fondo rimane sempre quel “senso del tutti” che rappresenta la sua nervatura più politica, capace ogni volta di declinarsi nelle forme di un’inesauribile rispetto per gli altri». In altre parole, una dichiarazione d’amore per la vita contemporanea, setacciata nella complessità dei suoi grovigli quotidiani che generano rapporti e legami senza marcare bolle di isolamento. «No – conclude Colombo – Maselli non ha mai voluto rinchiudersi nella torre della sua autonomia artistica, ma ha sempre lasciato una finestra aperta per farsi chiamare in strada e continuare il gioco. Con quel tocco di levità che non si traduce in frivolezza, ma che gli permette di penetrare gli aspetti drammatici del nostro mondo senza decorarli o abbellirli. In fondo, è un po’ come per le sue fotografie: sono sogni che si rifiutano di diventare incubi, proprio come quelli di un bambino che di fronte al pericolo sa che al massimo ci si sveglia e si può ripartire. E con Citto, credetemi, le cose ricominciano sempre».