Marzabotto, dopo 62 anni la giustizia aspetta ancora

NOMI, ETÀ, LUOGO DI MORTE Un lungo elenco di vittime, letto nel silenzio dell’aula dall’avvocato di parte civile Andrea Speranzoni, tra la commozione e il raccoglimento dei parenti. Con questa immagine si apre il processo per l’eccidio di Marzabotto,
Grizzana e Monzuno provocato dalle rappresaglie delle Ss naziste tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944. I morti complessivi furono 771, moltissime le donne e i bambini, alcuni anche nati da poche settimane. Nel procedimento che si è aperto ieri al Tribunale militare di La Spezia, presieduto dal giudice Vincenzo Santoro, sono imputati 4 sottufficiali tedeschi: Franz Stockinger (80 anni), Gunther Finster (81), Albert Piepenschneider e Helmut Wulfe (82 anni). Il processo è stato aggiornato al 30 marzo ma, entro aprile, sarà unificato a un secondo filone per cui è stato richiesto il rinvio a giudizio di 17 Ss. Si sono costituiti parte civile 55 parenti delle vittime, oltre alla Regione, la Provincia di Bologna, il Comune di Marzabotto e, notizia di ieri, lo Stato tramite la Presidenza del Consiglio. I nomi dei 21 imputati sono usciti dopo 50 anni da un sepolcro chiamato Armadio della vergogna, il cosiddetto “archivio” di palazzo Cesi, sede della Procura militare generale. Un occultamento oggetto di una Commissione parlamentare d’inchiesta, che ha portato a conclusioni diverse: il centrodestra, infatti, attribuisce la scomparsa dei documenti a «negligenza e superficialità dei vertici militari», mentre l’Unione vuole arrivare a conoscere le «responsabilità politiche» di chi li ha insabbiati.
Ma ieri era il giorno dei ricordi. Dolorosi quelli affiorati nelle menti dei cinquanta familiari delle vittime che, dall’Appennino emiliano, non hanno voluto mancare l’appuntamento. Tanti quelli cui sarebbe piaciuto «vedere in faccia» chi ha massacrato i loro cari, civili inermi spazzati via a colpi di mitra e bombe a mano. Un desiderio che non si è avverato. Le quattro Ss della XVI Divisione saranno infatti giudicate in contumacia: il giudice Vincenzo Santoro ha respinto il certificato medico presentato (via fax) da Wulfe, recentemente operato. Le accuse, sostenute dal pm Marco De Paolis, sono di «concorso in violenza con omicidi contro privati nemici, pluriaggravata e continuata». A carico di Piepenschneider e Stockinger si aggiungono anche i reati di «incendio, distruzione e grave danneggiamento aggravato e continuato». Ma il primo, interpellato ieri da Radio 24, ha detto di «non sapere nulla» né del processo né di quanto accaduto sull’Appennino: «Ho la coscienza a posto nella maniera più assoluta – sostiene Piepenschneider -. Non ero lì in quel momento e non conosco Marzabotto». Un posto che, al contrario, Caterina Fornasini, la nipote di don Giovanni Fornasini, uno dei 5 sacerdoti morti nell’eccidio, conosce a menadito. Don Giovanni, insignito della medaglia al valore nel ‘51, si scontrò con un manipolo di Ss arrivati a portare il caos nella sua canonica di Sperticano l’8 ottobre ‘44. «Facevano i padroni: chi si metteva a ballare, chi beveva e, ubriaco, indossava parrucche da donna», racconta Caterina, che viveva lì con la nonna e la madre. Il 13 ottobre Don Giovanni si inerpicò fino al cimitero di Monte Caprara: mostrare alle Ss il cumulo di morti che giaceva insepolto gli costò la vita. «Vorrei davvero sapere cosa è successo, tutto quello che ci dissero i tedeschi fu: “Il prete? Kaputt” – racconta Caterina -. Mio padre sperò fino alla fine che suo fratello fosse vivo ma riconobbe il suo cadavere, a San Martino, da una catenina. Era il 22 aprile ‘45. E mia nonna non sorrise mai più». Neanche Caterina sorride. Il viaggio nella memoria è doloroso. Ma a maggio, quando inizierà il dibattimento, potete scommettere che salirà di nuovo sul pullman per La Spezia.