Marzabotto, così i nazisti pianificarono la strage

Dei 400 casi di stragi accertate, solo una decina diedero luogo a un processo, con condanne esemplari come quelle inflitte a Herbert Kappler per le Fosse Ardeatine e Walter Reder per Marzabotto. Nel gennaio 1960 con un semplice timbro e una illegale scritta in burocratese, «archiviazione provvisoria», il procuratore generale militare, Enrico Santacroce, seppellì 695 fascicoli riguardanti le stragi tedesche in Italia. Tutti i procedimenti furono insabbiati e le 15mila vittime non ebbero giustizia. Ieri una nuova sentenza è tornata a ricordare gli orrori della guerra e ad evocare l’eccidio di Marzabotto. E quell’eccidio non fu una “semplice” rappresaglia nazista, fu una strage, premeditata, pianificata, scientificamente eseguita. Dopo sessantatre anni è il tribunale militare di La Spezia che il 13 gennaio ha condannato all’ergastolo dieci militari delle Ss, a mettere il sigillo su quei fatti che nel settembre del 1944 portarono allo sterminio di 880 civili sulle montagne bolognesi, intorno a Marzabotto. «Tragica tappa finale (scrive Arrigo Petacco, dagli archivi della Resistenza, ndr) di quella “marcia della morte” iniziata in Versilia».
Era il settembre del 1944. L’esercito alleato – scrive ancora Petacco – indugiava davanti alla Linea Gotica e il maresciallo Albert Kesserling, per proteggersi dall’«incubo» dei partigiani, aveva ordinato di fare «terra bruciata» alle sue spalle. Fu proprio Kesserling il mandante di quella strage che assunse solo dopo il nome simbolico di Marzabotto anche se i paesi colpiti furono molti di più.
L’esecutore si chiamava Walter Reder. Era soprannominato “il monco” perché aveva perso in guerra l’avambraccio sinistro. Kesserling – riportano gli archivi storici dell’Anpi – lo aveva scelto perché considerato uno «specialista» in materia. Il “monco” iniziò ad agosto quella marcia che lo porterà dalla Versilia alla Lunigiana e al bolognese lasciando dietro di sé una scia insanguinata di oltre tremila vittime e tra queste uomini, donne, vecchi e bambini. In Lunigiana proprio ai nazisti si unirono collaborazionisti e appartenenti alla Brigate nere di Carrara. E’ a fine settembre dopo aver sterminato morte e terrore a Gragnola, Monzone, Santa Lucia, Vinca che “il monco” si spinse in Emilia ai piedi del monte Sole dove si trovava la brigata partigiana “Stella Rossa”. E fu qui che, per tre gioni – a Marzabotto, Grizzana e Vado di Monzuno – che Reder compì la più tremenda delle sue rappresaglie.
A Caviglia i nazisti irruppero nella chiesa dove don Ubaldo aveva radunato i fedeli per recitare il rosario. Furono tutti sterminati a colpi di mitraglia e bombe a mano.
Nella frazione di Castellano fu uccisa una donna coi suoi sette figli, a Tagliadazza furono fucilati undici donne e otto bambini, a Caprara vennero rastrellati e uccisi 108 abitanti compresa l’intera famiglia di Antonio Tonelli (15 componenti di cui 10 bambini). Ma la scia di sangue è lunga. A Marzabotto “il monco” ci arriva il 29 settembre distruggendo ogni cosa intorno a sé. Non rinunciò neppure a quella che Petacco definisce la “morte nascosta”: prima di andarsene disseminò il territorio di mine che continuarono ad uccidere fino al 1966 altre 55 persone. Complessivamente le vittime di Marzabotto, Grizzano e Vado di Monzuno furono 1.830. Fra i caduti, 95 avevano meno di sedici anni, 110 ne avevano meno di dieci, 22 meno di due anni, 8 di un anno e quindici meno di un anno. Il più giovane si chiamava Walter Cardi: era nato da due settimane.
«Il 29-30 settembre ed il 1° ottobre – ricorda ancora Renato Giorgi – furono i giorni più terribili della carneficina, ma continuò anche poi; alcuni per ventura scampati, stanno ancora oggi a testimoniare la verità su quanto allora accadde. Dalle strade prossime e dalla ferrovia, molti sono corsi su verso Casaglia, e con la popolazione del luogo si sono rifugiati in chiesa a prendere conforto dalle parole del
Parroco, Don Ubaldo Marchioni, che recita il Rosario sull’altare; nella chiesa in penombra, la massa inginocchiata bisbiglia le parole della fede e della speranza. Irrompono i nazisti, una raffica si alza sopra le grida». Ieri la deposizione della sentenza rievoca l’atrocia di quegli orrori.
E’ in 195 pagine che proprio il tribunale presieduto da Vincenzo Santoro ricostruire nei particolari ognuno dei 113 episodi di quell’eccidio che, si legge testualmente, «fu freddamente pianificato a tavolino, sulla base della arbitraria e ingiusta equiparazione tra civili e partigiani. Le violenze sui civili inermi iniziarono ben prima che i partigiani della Stella Rossa accennassero una pur minima resistenza. Quale “necessità” vi era di sterminare i vecchi, gli invalidi e i bambini più piccoli? La furia nazista non operò alcuna distinzione tra le persone. Gli ordini impartiti erano chiari: uccidere tutti e distruggere tutto». La sentenza ha disposto anche un risarcimento, per oltre 12 milioni, per i familiari delle vittime. Che non sono certo ripagati dall’oltre mezzo secolo di attesa, prima che nel 1994 venisse aperto “l’armadio della vergogna” di Palazzo Celsi che ha reso possibile il processo di La Spezia.