Costruire nuovi meccanismi di coordinamento tra le forze della sinistra, per accrescere la “massa critica” nei luoghi decisivi del potere. Mi sembra un proposito degno ed urgente, e spero quindi che l’iniziativa proceda senza incontrare i proverbiali ostacoli. A questo riguardo, tra i sostenitori dell’ipotesi di coordinamento tra le sinistre sembra al momento diffuso il timore che, una volta costituito il partito democratico, non resti in Italia più alcuna traccia di forze politiche espressamente ispirate ai valori del socialismo. L’attenzione nei confronti di questo, che è al tempo stesso un problema e un’opportunità, mi sembra del tutto comprensibile. Credo tuttavia che sarebbe cosa buona e saggia se, nell’auspicato ricompattamento, qualcuno raccogliesse anche l’eredità di quella che è tuttora la principale esperienza condivisa dalle forze in gioco, quella per così dire della “foto di famiglia” dei comunisti: mi riferisco al marxismo come scienza critica, come analisi scientifica del capitale e delle sue continue tensioni e contraddizioni.
Il rinvio al marxismo come scienza potrà forse apparire, agli occhi di qualcuno, un ingombro inutile e forse persino controproducente. Dopotutto questo sembra essere il tempo degli aggregati light, delle parole d’ordine nelle quali possano riconoscersi un po’ tutti – e un po’ nessuno, oserei aggiungere a titolo di avvisaglia. Ebbene, alle vittime dell’immediatismo dei giorni nostri suggerisco di prendere atto che le scorciatoie sono finite. “Camminare domandando” è stato bello e anche utile, ma adesso sarebbe ora di rimettersi a studiare per trovare le risposte. Per dirla con Althusser e con Sraffa, noi cioè dovremmo saper individuare i punti di crisi “emergenziale” nelle condizioni di riproducibilità del sistema, quegli unici punti del tempo nei quali il meccanismo autoreferenziale del potere si inceppa, e risulta quindi effettivamente esposto alle istanze rivendicative dei movimenti organizzati. Il marxismo come scienza, insomma, costituisce l’antidoto di cui abbiamo bisogno per lasciarci alle spalle il velleitarismo etico-normativo degli ultimi anni – quello che non sa misurare lo spazio e il tempo del conflitto, quello che non ci fa capire quanto distanti noi siamo oggi dalle vere priorità delle masse, quello che non ci fa cogliere il giusto momento per andare all’attacco. A questo proposito, dal secolo scorso ad oggi le cose per la sinistra non sono affatto cambiate: il volano tra partiti e movimenti si attiverà e non andrà in corto solo se gli uni e gli altri sapranno creare il consenso anticipando i termini della crisi reale, quella che agisce sui corpi prima ancora che sulle coscienze. Una crisi che resta sotto molti aspetti incompresa ma che è già in atto da tempo, con il meccanismo di riproduzione del profitto che, lungi dall’arretrare, si espande, aggredisce e tende continuamente a plasmare i meccanismi di riproduzione della natura e della specie. Ed è proprio questa aggressione che spiega l’arrocco reazionario delle masse attorno alla famiglia tradizionale e al territorio. Assistiamo oggi, infatti, all’oscena rivincita delle enclaves e del patriarcato, e la ragione è che in assenza di alternative si cerca protezione negli antichi fortini, per tentare una strenua difesa dei processi di riproduzione della specie e della natura dagli assalti provenienti dal meccanismo di riproduzione del profitto. Qualcuno, in questi anni, anche dalle nostre parti, ha scelto di cavalcare acriticamente una tale reazione. L’analisi marxista ci aiuta invece a comprendere che questa difesa non costituisce la soluzione ma più modestamente il sintomo della crisi in atto. Una crisi che potrà essere concretamente affrontata solo ponendo il lavoro nuovamente al centro delle categorie interpretative e del conflitto politico: il lavoro destinato alla riproduzione del profitto così come alla cura dei bambini e degli anziani, e il conflitto quindi tra le classi così come tra i generi.
Siamo dunque certi che nei futuri processi di riorganizzazione interna la sinistra faccia bene a lasciare in soffitta la scienza marxista sotto la coltre di polvere che la ricopre? Io credo di no. Credo che qualcuno, tra noi, dovrebbe assumersi il compito di recuperare e aggiornare i vecchi strumenti di analisi, per approfondire i termini decisivi della crisi. E’ questa una necessità che vale anche sul piano della stretta contingenza politica. Lo è in primo luogo poiché consente di capire chi e dove, a sinistra, abbia di volta in volta visto giusto, in questi anni. Io sostengo, ad esempio, che Rifondazione ha scelto benissimo sul No alla Costituzione europea e sull’assoluto risalto dato alle nuove questioni dei generi, dell’identità sessuale e della promettente crisi della famiglia tradizionale in atto. Mentre ritengo che sulla storia del Novecento e sulla relativa centralità – strategica, non certo etica – del lavoro, si siano rischiate in questi anni operazioni revisioniste che sarebbe in parte il caso di ridiscutere. Infatti, per quanto disgregato e tuttora differenziato, il conflitto sul lavoro resta l’unica leva in grado di risolvere in senso progressivo la contraddizione in corso tra i processi di riproduzione del profitto da un lato, e della specie e della natura dall’altro. Il problema da cui ripartire è dunque il seguente: gli attuali processi di concentrazione capitalistica preludono ad analoghi processi di concentrazione fisica dei lavoratori? E, se la risposta fosse anche solo in parte negativa, disponiamo noi di moderni strumenti di coordinamento sindacale e politico in grado di fronteggiare la frantumazione di classe? Considerato che si è fatto di tutto, in questi anni, per inseguire la politica televisiva e per distruggere il radicamento territoriale dei partiti, la domanda appare quanto mai legittima.
Ma l’analisi marxista dei processi di riproduzione vale pure come operazione egemonica nei confronti delle altre forze politiche, di centro e di destra, alleate o meno che siano. Queste forze infatti navigano ormai palesemente a vista di fronte al possibile collasso dell’Europa borghese, afflitta da uno squilibrio interno che i meccanismi liberisti di aggiustamento basati sulla deflazione salariale e sugli esodi di massa non sembrano affatto in grado di assorbire. Molto probabilmente siamo in prossimità di un bivio tra un’Europa unita ma iper-capitalistica e autoritaria, e una deflagrazione neo-nazionalista del progetto di unificazione. E in nessuno dei due casi i residui istituti di democrazia politica e sindacale ne usciranno vivi. Siamo preparati all’impatto? abbiamo pronta un’alternativa? Direi di no, nel senso che dopo i No referendari alla Costituzione europea siamo rimasti al palo, e soprattutto molti non hanno capito cosa stia realmente accadendo. Bisogna convincersi allora che soltanto il recupero degli strumenti di analisi critica dei processi di riproduzione capitalistica potrà aiutarci a ritrovare la bussola. Del resto, è proprio dalla messa in opera di questi strumenti che sono fuoriuscite, negli ultimi tempi, le proposte operative più coerenti ed efficaci. Ricordo in proposito che la parte più autorevole e nettamente maggioritaria degli economisti critici è giustamente convinta che l’appello contro l’abbattimento del debito pubblico (www.appellodeglieconomisti.com) costituisca un valido riferimento attorno al quale la sinistra dovrebbe compattarsi, per definire una prima risposta, razionale e conflittuale, alla crisi italiana ed europea in corso. Se infatti vogliamo darci una concreta chance per la conquista dell’egemonia, dovremo sempre far partire ogni nostro intervento dalla messa in evidenza che un’alternativa macroeconomica esiste, e che solo battagliando dalle periferie si potrà tentare di imporla al centro del sistema. C’è chi invece oggi parla genericamente di competitività nazionale e vorrebbe condizionare l’espansione del debito all’espansione del reddito: il che o è banale o significa flirtare in modo alquanto subalterno con la risibile “regola aurea” del mainstream. Può darsi che ciò derivi dalla ricerca di una comoda nicchia nella temperie politica in corso oppure dal fatto che non sempre si dispone degli strumenti tecnici per quantificare le dimensioni della ristrutturazione capitalistica, la relativa divergenza di produttività e la conseguente “mezzogiornificazione” delle periferie europee. In entrambi i casi, è ovvio che un simile atteggiamento finisce per dare man forte ai devastanti meccanismi deflazionistici e migratori tramite i quali le destre a noi prossime contano di risolvere la crisi.
Ma al di là di queste elementari discussioni al margine, molto di più si riuscirebbe a produrre se si trovasse davvero il modo di far interagire la critica dell’economia dominante con la ricerca sulle questioni ambientali e di genere. L’intreccio tuttora in parte oscuro tra la riproduzione del profitto, della specie e della natura è infatti lì che spinge sui corpi, sulle relazioni sociali e affettive. Soltanto scoprendone la “combinazione” sapremo trarre riferimenti generali per una linea di indirizzo che sia non identitaria ma realmente egemonica. Il mio invito, pertanto, è che nell’auspicato ricongiungimento tra gli eredi della tradizione comunista – siano essi doc, rifondati, post o ex, con maggiori o minori rimorsi – qualcuno si assuma l’esplicito incarico di rovistare nella vecchia, comune scatola degli attrezzi. Naturalmente, l’odierna frammentazione è tale che risulterà sotto certi aspetti inevitabile riunirsi sotto l’accogliente ombrello ideologico delle parole d’ordine light. Ma sarebbe un grave errore se, nel giusto tentativo di fare “massa critica”, nessuno tra noi facesse valere l’immenso peso conoscitivo e strategico del materialismo storico e della critica della politica economica, concretamente rifondati nelle nuove, decisive acquisizioni in tema di ambiente e di genere.