Mario Schifano, rabbia creativa

Scrivere di Schifano è come camminare su un filo di seta. Si rischia ad ogni passo di cadere nei luoghi comuni. I luoghi comuni sono sempre in agguato. Ma per quanto riguarda le arti visive sono quasi la regola. Nel caso di Schifano i rischi si moltiplicano perché la sua vita e il suo lavoro sono stati come fuochi d’artificio. Vediamole allora alcune delle principali coppie di opposti luoghi comuni rimasti appiccicati, come gomma da masticare, alla figura e alla memoria storica di questo grande artista.
Ebbene il pittore di Homs, Libia (vi nacque da genitori italiani nel ‘34, per scomparire ‘98), è stato considerato con scambievole disinvoltura uno dei massimi rappresentanti della neoavanguardia italiana legata al Nouveau Realisme e al gusto Pop internazionale degli anni ‘60 e, insieme, un pittore ripetitivo e dozzinale. E’ stato considerato un assoluto caposcuola nelle esperienze successive (anni ’70), soprattutto per l’utilizzo di soluzioni tecnologiche e di contaminazioni linguistiche con il mondo della comunicazione televisiva e, insieme, un malato cronico di pittoricismo gestuale. E’ stato considerato un sovversivo di sinistra e, insieme, una vittima “arresasi senza condizioni” ad un sistema capitalistico spietato. E’ stato considerato un monarca assoluto che osservava-dominava il mondo, rinchiuso nella torre d’avorio del suo studio, stipato di monitor, videoregistratori e macchine fotografiche e, insieme, una creatura incapace di reagire ai suoi vizi e costretto, quindi, ad una immobilità forzata.

Come si vede, definire Schifano un personaggio controverso è solo un riduttivo eufemismo. Il suo è stato ed è un caso di rilievo assoluto sotto il profilo del definitivo riconoscimento storico-artistico (a nostro giudizio tutt’altro che raggiunto) e sotto quello dell’interpretazione del rapporto inestricabile fra il suo lavoro e il suo vissuto esistenziale. Un vissuto naturalmente non solo suo ma che, in taluni ambienti, fu lo specchio di un periodo storico preciso (quello che precedette e seguì il ’68). Un tempo magnifico e tremendo come dimostra la vita e la sorte dei suoi più vicini compagni di strada, Tano Festa e Franco Angeli.

Per tornare ai contrastanti luoghi comuni, c’è da dire che, come accade spesso, in essi almeno una parte di verità si può rintracciare. E così non è dubbio che egli fu un caposcuola nel periodo dei monocromi (quello dell’azzeramento) e nel “capire” in anticipo l’importanza dei media. Ma è vero anche che fu pittore (come Pollock e Franz Klein) dal gesto rapinoso e dalla sgocciolatura rivelatrice (niente a che vedere con un seriale pop-artista). E’ vero anche che fece quadri brutti, di corsa, per il mercato spicciolo. Ma che vuol dire… anche Picasso ne ha fatti, anche De Chirico. E’ vero che fu un ribelle, un uomo di sinistra, per una certa fase un comunista. Ma è vero anche che lo fu come tanti in quel periodo, incrociando questa disposizione d’animo e ideologica con una irresistibile, vitalistica, quasi animale volontà di godimento e di affermazione personale.

Sin qui il tentativo è stato quello di fare pulizia, come quando l’operaio pulisce il tavolo di lavoro prima di cominciare l’opera. Ora si vorrebbe tentare un affondo per “capire” che cosa veramente Mario Schifano è stato ed è. In questo senso mi sembra che tre possano essere i traccianti.

Il primo è quello della pittura intesa come “questione di vita o di morte”; il secondo quello della velocità; il terzo è quello del rapporto, fondativo rapporto, fra arte e sofferenza.

Seguendo l’ordine, quello che mi sembra si possa affermare è che, sin dall’inizio, la pittura fu per Schifano una partita decisiva, estrema, totale. Sin dagli schermi, cui seguirono i segni di energia e le coca-cola, gli incidenti e i paesaggi anemici, le tele emulsionate coi televisori degli anni Settanta e l’enorme repertorio figurativo postespressionistico, personalissimo, degli anni Ottanta e Novanta.

Il secondo tracciante è la velocità. Anche qui non è che Schifano ne abbia avuto l’esclusiva. Si racconta che Tintoretto fosse un pittore velocissimo nella realizzazione delle sue opere. Ma per il pittore di Homs la velocità è stata un’altra cosa. Una cosa che fa venire in mente la rappresentazione di una vita in presa diretta. Insomma la velocità intesa come connotato distintivo di un contemporaneo più esaltato che esaltante di cui Schifano è stato il sacerdote.

La terza chiave di lettura è quella fornita dal rapporto arte/sofferenza che è sempre alla base di qualsiasi esperienza creativa profonda e di qualsiasi azione rivoluzionaria. Si reagisce con l’arte o con la rivoluzione (è lo stesso) a un destino infame di sofferenza e di ingiustizia, di silenzio eterno o, peggio, di inutilità. Un destino che incombe sulla testa di tutti. Parte dei reietti non reagisce perché non capisce. Molti non vogliono capire, come chi nega sino alla fine una grave malattia. Altri reagiscono. Si incazzano e fanno la rivoluzione. Oppure fanno arte nel senso più profondo del termine (che eticamente è la stessa cosa). Schifano apparteneva a questa terza categoria. La sua era una rabbia creativa consumata come si consumano gli eccessi violenti di una rissa. Sotto c’era l’idea che con la velocità, il successo e le nevicate si potesse non morire mai. Un’immortalità ottenuta per via chimica e per via di arte, di pittura, di straordinaria, straripante, picaresca, sporca, colante, smagliante pittura.

tratto dal catalogo della mostra a cura di Silvia Pegoraro