Mario Giovana: «Un giorno di grandi speranze e d’entusiasmo purtroppo in gran parte vanificati»

Mario Giovana, cuneese, partigiano, comandante di Giustizia e Libertà nella sua regione, giornalista, è sempre stato un osservatore attento della storia di quell’Italia del nord protagonista ad un certo punto della lotta contro il nazifascismo più di ogni altra parte della penisola. Le sue numerose pubblicazioni, come Giustizia e Libertà in Italia. Profilo di una conspirazione antifascista 1929-1937 (Bollati Boringhieri, 2005) o Torino: la città e i «Signori FIAT» (Teti, 1977) tanto per citarne due, lo testimoniano. Tutte ragioni sufficienti per ascoltare, da vero e proprio protagonista qual è stato, la sua testimonianza sulla Liberazione. «Ricordo il 25 aprile – dice Giovana – come un giorno molto festoso. Per noi in particolare che venivamo dalla montagna era come un ritorno alla civiltà, alla comunità della gente normale. E quindi è stato un gran giorno, un giorno di entusiasmo e di grandi speranze. Speranze, ma su questo dovremmo discutere per ore, in gran parte vanificate».

Presto la festa lasciò il posto alla disillusione…
I giorni immediatamente successivi hanno continuato ad essere giorni di gioia, di festa, di speranza. Il problema era come ci ponevamo di fronte alle prospettive del domani e che cosa speravamo. E lo facemmo in realtà con pochissima preparazione. Ricorderò domani a Savigliano (oggi per chi legge, ndr ) che nel tardo ottobre del ’43, in un viale di Torino, il mio vecchio amico e compagno di banco del ginnasio Gaspare Pajetta, mi disse che sì, ce l’avremmo fatta, ma poi avremmo dovuto imparare la democrazia. Noi non ci siamo più visti, perché lui è morto combattendo il 13 febbraio del ’44 a Megolo, ma il problema era proprio questo: dovevamo imparare la democrazia, la doveva imparare il paese e però bisognava spiegargliela questa democrazia. E ho l’impressione che è stata spiegata poco e spesso molto male.

Ricordo, durante l’ultimo FestivalStoria, i tuoi racconti sull’improvvisazione che caratterizzò, almeno in un primo momento, la Resistenza…
Va ricordato che quei giorni non erano scappati solo una caricatura di sovrano e un farabutto criminale di guerra come Badoglio. Era scappato lo Stato, non c’era più nulla, avevamo la sensazione di un totale disarticolarsi di ogni forma di potere centrale e locale. Durante quei giorni, gente come me che aveva diciassette, diciotto anni, ha cercato di vedere che cosa si poteva fare e non ha trovato nella generazione precedente degli appoggi. In realtà ha dovuto cavarsela da sola e malamente.

Avevate una preparazione militare molto approssimativa…
Non sapevamo sparare. Quando andai da quel colonnello Ballatore a chiedergli di prendere il comando di quel gruppetto che avevo organizzato con le armi prelevate ai soldati che scappavano mi sentii rispondere, lo ricorderai perché lo dissi proprio in quell’occasione a Savigliano, «si tenga in evidenza». Capii a quel punto che la Resistenza con gente del genere non l’avremmo mai fatta. Per cui abbiamo dovuto inventarci tutto, compreso sparare. Io ho sparato la prima volta quando mi hanno portato in un’imboscata. Non sapevo che il mio moschetto 91 aveva un forte rinculo e sono rimasto dunque una settimana con la mascella enorme per i colpi ricevuti. Eravamo organizzati proprio così, disarmati che si armavano per cercare la libertà e la democrazia.

Perché la normalizzazione si è fatta strada tanto facilmente in un paese che comunque era riuscito a riscattarsi dopo il fascismo e la guerra?
E’ successo perché in Italia c’è sempre stata una vecchia e stratificata abitudine al conformismo silenzioso. Che non è fascismo, ma una sorta di abbandono alla sorte e al desiderio di non compromettersi. C’era inoltre una impreparazione di fondo perché mancava un retroterra culturale come del resto continua a mancare ancora oggi. Il problema vero è che il paese si ispira alla necessità di essere centrista a vita perché così si è pronti per qualunque occasione e soprattutto per l’occasione di non pensare e di non parlare.

La Resistenza nel cuneese è stata un fenomeno particolare, fatta anche da intellettuali, che proprio per la loro natura si sono trovati ancora più spiazzati per l’immediata normalizzazione del dopoguerra…
In una rivista che dirige il mio amico Del Boca ho fatto un esame dell’antifascismo cuneese che, secondo me, come fenomeno di massa, non è esistito. C’è stato invece un a-fascismo, cioè una specie di incompatibilità organica della società, così come era in questa provincia, ad accogliere le parole d’ordine del fascismo. E quindi un’estraneità. Ma gli antifascisti sono stati pochi, un manipolo di comunisti che è finito in galera o in esilio, Duccio Galimberti e pochi altri. L’antifascismo è cresciuto in rapporto ai disastri della guerra e per l’estraneità al regime anche se ci sono stati dei fenomeni incredibili. Il primo che ha proclamato la lotta antifascista è stato appunto Galimberti; il tenente degli alpini Nuto Revelli che era partito fascista per la Russia è stato poi uno dei più fieri avversari del regime in nome degli alpini che aveva visto morire.

Che sta succedendo a Cuneo per questo 25 aprile?
In questi giorni c’è una specie di manifestazione paesana con bandiere e cessi mobii per gli alpini. Un modo folkloristico e appunto strapaesano di pensare al passato invece di chiamare la gente a meditare e ad impegnarsi sul presente. Ha ragione, a questo proposito, il mio vecchio amico e compagno Vittorio Foa: bisogna fare attenzione a non addormentarsi nella memoria del passato. Il passato è libertà se si fa rivivere in ragione dei problemi del presente e del futuro. Ed è questo che bisognerebbe dire ai giovani.