Per il momento passa quasi inosservata, ma la catastrofe ecologica e sanitaria provocata dal conflitto in Libano è molto più grave di quanto detto finora. Una guerra è sempre una catastrofe, umana in primo luogo e anche ambientale: ma qui parliamo di un episodio in particolare, il bombardamento di una centrale elettrica a Jiyyeh, neppure 30 chilometri a sud di Beirut, centrata dalle bombe israeliane il 13 e il 15 luglio (primissimi giorni del conflitto). Ne sono uscite circa 30mila tonnellate di carburante (10mila subito e altre in seguito); quello finito in mare ha formato una «marea nera» che tocca ormai 120 chilometri di costa libanese e siriana, spinta verso nord dal vento; è stata avvistata al largo di Cipro e della Turchia.
E’ un disastro che minaccia già ora circa 3 milioni di persone e avrà effetti tanto più gravi quanto più si tarda a intervenire, ha fatto notare ieri Sergio Illuminato, direttore del Info/Rac, il Centro italiano di informazione della Convenzione di Barcellona (è il trattato internazionale per lo «sviluppo sostenibile» del Mediterraneo a cui aderiscono i 21 paesi rivieraschi). Durante una conferenza stampa convocata a Roma da Info/Rac e dal ministero dell’ambiente italiano, Illuminato ha fatto il punto delle informazioni note. La prima è che non si tratta di «semplice» petrolio ma di olio combustibile, cioè un composto di idrocarburi policiclici aromatici con sostanze come benzene, benzopirene e policlorobifenili (Pcb), cancerogene e mutagene. Il pericolo per le popolazioni costiere è immediato: anche perché quei composti chimici sono volatili, soprattutto con le temperature estive; tra il 35 e il 40% evaporano e sono state respirate dai 2 milioni di abitanti dell’area metropolitana di Beirut. La marea nera poi attacca l’habitat marino («da domenica è visibile una moria di pesci sulle coste libanesi») e il suo fragile equilibrio di specie; di riflesso minaccia di nuovo la salute umana, con le sostanze cancerogene che si accumulano nella catena alimentare. Il ministero dell’ambiente libanese ha vietato la pesca su un lungo tratto di costa a nord di Jiyyeh; per ora non può fare di più.
Questo è il punto: un «incidente» tanto grave richiedeva interventi immediati per contenere la marea nera. «Dobbiamo adoperarci per evitare il disastro, ma non possiamo intervenire subito a causa del conflitto: anche per questo è necessario l’ immediato cessate-il-fuoco», ha detto ieri il ministro dell’ambiente Alfonso Pecoraro Scanio. Il suo ministero ha ricevuto formali richieste di aiuto dall’Unep (Programma dell’Onu per l’ambiente) e dal coordinamento europeo della Protezione civile, ed è pronto a intervenire, «in coordinamento con i ministeri degli esteri e della difesa» (che dovranno dare il via libera, appena raggiunta la tregua). Sono pronti i mezzi delle Capitanerie di porto (gli aerei Atr42 capaci di rilevare con precisione l’inquinamento da idrocarburi), e le navi della classe 900 adatte sia a rilevamenti che a interventi di contenimento e di asporto del carburante, barriere contenitive e così via. Coordina l’Icram, l’Istituto di ricerca sul mare collegato al ministero dell’ambiente, che ha mobilitato quattro esperti, ha spiegato il commissario dell’Icram Silvio Greco: uno è partito proprio ieri per la Siria. «Le convenzioni internazionali dovrebbero vietare di colpire centrali elettriche o infrastrutture simili, provocando tali devastazioni per l’ambiente e le generazioni future», ha concluso Pecoraro Scanio.