Mar di Florida, Castro vende il suo petrolio alla Cina e beffa Bush

Pechino potrà sfruttare i giacimenti dello Stretto. I repubblicani insorgono. Le riserve petrolifere divise esattamente a metà tra i due Paesi da un trattato firmato nel 1977
Una nuova crisi cubana mette l’una contro l’altra due grandi potenze. Questa volta non si tratta di missili, ma di petrolio. La Cina ha firmato un contratto con Cuba per lo sfruttamento dei giacimenti nel golfo della Florida, mentre gli americani sono disperati per il vertiginoso aumento del prezzo della benzina che potrebbe fare perdere le elezioni al partito di governo e i petrolieri del Texas masticano amaro per la nazionalizzazione dei loro interessi in Venezuela.
La beffa non potrebbe essere più atroce per l’ex petroliere George Bush e per suo fratello Jeb, diventato governatore della Florida con i voti degli esuli cubani anticastristi. Non tutti lo sanno, ma sotto il mare tra Cuba e gli Stati Uniti vi sono riserve importanti di petrolio. Un trattato firmato nel 1977 e rinnovato per due anni dal presidente Bush nello scorso dicembre le divide esattamente a metà fra i due paesi. Il recente aumento dei prezzi ha dato il via a una corsa all’oro nero, ma le condizioni di partenza sono molto diverse.
Gli Stati Uniti hanno un acuto bisogno di petrolio, ma la legge per la protezione dell’ambiente in vigore dagli anni 80 vieta l’estrazione a meno di 300 chilometri dalle coste. Dall’altra parte dello stretto Cuba ha un fabbisogno molto limitato e non dispone della tecnologia per sfruttare i giacimenti sottomarini. Ha quindi diviso la propria zona in 59 lotti da affittare ai migliori offerenti. Finora ha firmato contratti o avviato trattative con 16 paesi, fra cui Cina, India, Spagna e Canada.
Le compagnie petrolifere degli Usa sono state invitate a partecipare alla gara, ma non possono farlo per il boicottaggio economico di Cuba imposto dal loro governo. Possono soltanto fare il diavolo a quattro con deputati e senatori che hanno chiesto loro finanziamenti per le campagne elettorali. Il senatore repubblicano Larry Craig è insorto: «Non possiamo permettere alla Cina Rossa di prelevare il petrolio sotto il naso degli industriali americani che hanno le mani legate». Il deputato repubblicano John Petrerson ha raccolto nei due partiti 160 firme per una legge che consentirebbe l’estrazione nella zona americana. «La crisi dei gas naturali – sostiene – è la più grave che abbia mai minacciato la nostra economia».
La posta in gioco è potenzialmente enorme. Secondo l’istituto geologico degli Usa, nei giacimenti che Cuba ha messo sul mercato vi sono 4,6 miliardi di barili di petrolio e 200 miliardi di metri cubi di gas naturali. È una quantità che basterebbe per pochi mesi agli Stati Uniti, ai livelli attuali di consumo. Se tuttavia si abolissero le restrizioni, i petrolieri potrebbero avere via libera nell’intero zoccolo continentale americano, cioè nella zona di mare entro 300 chilometri dalle coste, dove ci sono riserve per 25 anni.
Gli ambientalisti tengono duro. Il divieto di trivellare il fondo del mare non serve soltanto a difendere l’ambiente, ma anche a incoraggiare il risparmio di energia, in una nazione che lo stesso presidente Bush ha definito «drogata dal petrolio».
I consumatori sono furibondi. Da quando Bush è presidente il prezzo della benzina è aumentato del 126 per cento, e le bollette del gas per il riscaldamento del 152 per cento.
Il presidente cubano Fidel Castro si gode fino in fondo questo momento di gloria. La settimana scorsa ha firmato un accordo commerciale con altri due nemici di Bush, il boliviano Evo Morales e il venezuelano Hugo Chavez, che hanno entrambi nazionalizzato gli idrocarburi.
Cuba e Bolivia non esportano negli Stati Uniti, ma il Venezuela è il loro primo fornitore di petrolio.