Mantova, la letteratura è business?

C’erano una volta le riviste, i critici letterari, le case editrici e il loro apparato di consulenti. Oggi ci sono i festival di letteratura – e quello di Mantova che apre domani per concludersi domenica, primeggia per autori, dimensioni e successo di pubblico da dieci anni a questa parte. Una volta i critici formavano un enorme esercito intellettuale che metteva in rapporto i lettori con gli scrittori, la sfera sociale e la sfera privata di chi produceva idee. Non è azzardato dire che, in questa relazione, non c’era una rigida divisione dei ruoli, fra chi la cultura la faceva e chi, invece, la subìva. L’arsenale di cui disponevano critici e case editrici entrava in azione non solo per informare il pubblico delle nuove tendenze letterarie degli autori. Era, a suo modo, un dispositivo che funzionava anche all’inverso, dal basso verso l’alto. Interpretava i cambiamenti culturali che avvenivano nella società e li tramutava in domande alle quali gli scrittori avrebbero cercato di dare risposte. Gli intellettuali si interrogavano sui canoni letterari, sulle tendenze, sui criteri estetici, sulle implicazioni filosofiche e politiche. Gli scrittori partecipavano ai dibattiti, erano trascinati al di fuori delle loro convinzioni private, litigavano tra loro, come litigarono Calvino e Pasolini – e non semplicemente per riscuotere qualche pagina di visibilità e pubblicità sui giornali, ma perché le idee, i libri, la teoria avevano una funzione tangibile nel mondo, una funzione materiale, si potrebbe dire.
E oggi? L’industria dello spettacolo si è insinuata anche nei meandri del sistema autori-intellettuali-pubblico e ha fatto saltare l’anello intermedio della catena. Le scelte degli scrittori, le loro adesioni ai manifesti estetici e ideologici – quando ci sono – dipendono sempre più dai mass media e dal mercato. C’è chi lo chiama “postmodernismo”, chi vede in tutto questo l’avvento di una nuova epoca. Mentre si celebra la fine delle ideologie e delle grandi narrazioni – il marxismo, lo strutturalismo, la psicoanalisi – sono caduti i riferimenti alla verità, al materiale, all’oggettivo. «Se le cose sono scomparse e restano solo le parole – ha notato un critico acuto come Romano Luperini – ne è conseguito che il mondo, la storia, la vita si sono trasformati in retorica» e non resta altro che linguaggio. Il valore delle parole non sta nel rimando a qualcosa di esterno, ma dipende tutto dalla costruzione retorica in cui sono inserite. E se allora la postmodernità fosse un feticcio, una rappresentazione falsa e distorta che la società contemporanea dà di sé e nei confronti della quale tutti, in un modo o nell’altro, finiamo per divenire succubi?

C’è una via d’uscita dallo scenario attuale di una cultura ridotta a intrattenimento, a business? La proliferazione di festival è un fenomeno sintomatico di questi tempi. Quello di Mantova conferma, di anno in anno, il proprio successo di pubblico. Città stracolma di visitatori, tutto esaurito in alberghi e ristoranti, celebrazioni per il decimo anniversario, mega-eventi che permettono alle folle di assistere a divertenti incontri con gli scrittori di fama nazionale e internazionale nel ruolo di showmen e affabulatori. La questione non riguarda la presenza di grandi nomi che pure è assicurata. La presenza dell’allieva lacaniana Luce Irigaray – la mitica autrice di Speculum -, della linguista e psicoanalista Julia Kristeva, della sociologa Barbara Duden, e poi di Edoardo Sanguineti, Dario Fo, il glorioso ultraottantenne Jorge Semprún (indimenticabile il Il grande viaggio sulla sua esperienza di deportazione) e tanti altri ancora garantiscono la qualità alta. Si dovrebbe invece riflettere sul cambiamento del sistema, sul ruolo preponderante che festival e mass media hanno nell’influenzare le scelte letterarie, i canoni estetici e ideologici. Nei calendari festivalieri abbondano comici, cantanti, attori di televisione, tutti assieme a parlare di Dio e della gastronomia, di globalizzazione e cartoni animati. Non è, beninteso, la commistione tra cultura “alta” e cultura “bassa” a scandalizzare – anzi – ma è lo scivolìo lento e inarrestabile della cultura per la china dell’intrattenimento a preoccupare. Cosa succederebbe se la letteratura dovesse trarre conferma delle proprie tendenze dal successo commerciale e di pubblico di simili manifestazioni? E’ già così, possiamo dire addio alla critica giornalistica legata alla ricerca letteraria. E della critica partigiana, schierata a difesa di una propria poetica, di una propria interpretazione del mondo si sono addirittura perse le tracce. Restano, al loro posto, le polemiche sterili sui giornali, i salotti televisivi, i grandi eventi di pubblico e, in fondo, la critica accademica, ultraspecializzata, preoccupata dei circoli di potere all’interno delle università.