Mantova, Kizito Sesana racconta l’Africa invisibile

Il missionario comboniano protagonista di un incontro alla kermesse letteraria della città lombarda. Già direttore di Nigrizia e autore di diversi libri-testimonianza, ha conosciuto direttamente le guerre in Sudan e in Uganda

C’è un’Africa dimenticata dai mezzi d’informazione, invisibile a un Occidente che misura il mondo con i propri parametri. Lo si vede anche nel Festivaletteratura a Mantova, dove fra le parole d’ordine della “frontiera incerta” e delle identità culturali che si rimescolano sotto la spinta delle migrazioni, spuntano qua e là anche nomi della narrativa africana. C’è quello della sudafricana Thoko Nkoma, narratrice di storie orali, o dell’autrice di romanzi e poesie Véronique Tadjo – madre francese, padre ivoriano. Il resto è tutto per l’Africa maghrebina, tre autori algerini e trapiantati in Europa. Non sarà allora che i drammi del continente africano rischiano di diventare invisibili agli occhi di chi si ostina a guardare il mondo con gli schemi imperanti dello scontro di civiltà e delle guerre di religione? Non c’è il pericolo che in nome di teorie globali sfuggano i mali ereditati dal colonialismo, le questioni lasciate dai movimenti di liberazione della seconda metà del ‘900, e i conflitti sociali e nazionali tutt’altro che risolti?
Su questi temi insiste da anni Renato Kizito Sesana, missionario comboniano e protagonista di un incontro con il pubblico ieri a Mantova. E’ una biografia intensa, la sua, si diploma come perito meccanico, lavora per qualche anno alla Moto Guzzi di Mandello, entra nei comboniani e, dopo essere stato ordinato sacerdote, arriva a dirigere il mensile Nigrizia, dal ’73 al ’75. Poi si laurea in scienze politiche all’università di Padova in pieno ’77, con una tesi sui neri americani nella chiesa cattolica. Con il nome di “Kizito” – un martire ugandese – parte per lo Zambia, conosce di persona i movimenti di liberazione nell’Africa colonizzata dai portoghesi, poi si trasferisce a Nairobi, in Kenia, e qui fonda New People, periodico in lingua inglese. Le ultime missioni lo vedono in Sudan dove segue le lotte delle popolazioni del sud e, in particolare, quelle dei Nuba. Ma nel corso degli anni questo materiale biografico si è accumulato anche in un’intensa attività giornalistica e letteraria, in uno stile sobrio e poetico al tempo stesso. Kizito Sesana pubblica, con Stefano Girola, Occhi per l’Africa e La perla nera (per Paoline editoriale libri); nel 2003 esce Matatu: in viaggio con l’Africa (edizioni Cittadella), fino al suo lavoro più recente, Io sono un Nuba. Dalla parte di un popolo che lotta per non scomparire (edizioni Sperling&Kupfer). Il conflitto sudanese – sul quale si sofferma in quest’ultimo volume – è entrato nei media occidentali solo occasionalmente e, ogni volta, per essere interpretato come una delle ennesime guerre di religione del mondo globale. Da una parte, ci sarebbe il nord del paese, islamizzato e unificato sotto la legge della Sharya, dall’altra, il sud a maggioranza cristiana e animista. «Ma in realtà – spiega padre Kizito – il conflitto ha una lunga storia. La rivolta delle popolazioni del sud è iniziata cinquant’anni fa sotto forma di un movimento di liberazione e di conquista dei diritti fondamentali. Ci sono, certo, aspetti culturali, da un lato la cultura islamica e dall’altro quella nero-africana, ma agiscono anche motivi economici, legati al controllo del petrolio e dell’acqua. Al momento attuale tutti i paesi hanno messo in discussione i trattati sulle acque del Nilo, tranne l’Egitto che ne è il principale beneficiario». Ma anche la matrice politica del conflitto sudanese non è da sottovalutare, «i ribelli del sud sono nati all’inizio come marxisti-leninisti ed erano sostenuti dal blocco dei paesi socialisti, dall’Urss, da Cuba e dalla Cina. Quindi non è assolutamente una guerra di religione. Del resto, i cristiani non sono più del venti per cento della popolazione del sud, il resto appartiene alle religioni tradizionali. Si è trattato di una vera e propria guerra di liberazione e di conquista dei diritti fondamentali, da quelli economici all’istruzione e alla libertà d’espressione. Oggi non si spara più in Sudan, ma il processo di pace è appena agli inizi».

E se negli anni ’60 e ’70, in tempi di politicizzazione intensa, l’Occidente poteva guardare con favore ai movimenti di liberazione armata, oggi prevale invece una sorta di equidistanza, di indignato rifiuto di qualsiasi forma di violenza, fino a sfiorare un’ipocrita presa di distanza da qualunque movimento di resistenza con le armi. Ma le violenze si equivalgono, sono tutte uguali? Un gran bell’interrogativo per una coscienza religiosa e impegnata come quella di Kizito Sesana. «Sono un pacifista, rivendico il valore centrale dell’essere umano, ma in certe situazioni storiche bisogna intervenire così come è possibile. Nel ’94 fui contattato in Sudan da esponenti del movimento di liberazione del sud e mi chiesero di recarmi, sotto scorta armata, tra le popolazioni dei Nuba, dove ci sono cristiani che all’epoca non avevano mai visto un prete. Cosa dovevo fare, rifiutare di andare per via della scorta armata? Non c’erano alternative. Io sono per la pace, ma la storia va in altre direzioni rispetto ai nostri desideri. E’ vero, la guerra è negativa, la violenza chiama violenza, ma io ho visto bambini che per andare a scuola devono imbracciare il mitra per non essere catturati dai governativi. Cosa dovrei consigliare a quei bambini, di farsi prendere e lasciarsi ridurre in schiavitù? Preferisco il rispetto per le scelte che i popoli fanno. Se potessi dimostrare con esempi concreti cosa fare per cambiare le cose pacificamente, allora sì, mi sentirei legittimato a insegnare teorie della non-violenza. Ma in caso contrario, non me la sento di andare a fare la predica». Identica vocazione religiosa, vocazione per un Dio non monocratico, non separato dalle lotte degli uomini e dai travagli della storia, padre Kizito dimostra quando racconta del movimento di liberazione in Mozambico. «Ricordo i giovani mozambicani che negli anni ’70 diventavano partigiani e guerriglieri contro i portoghesi, rischiavano la vita e morivano. Altri li sostituivano. A volte le vie politiche si rivelano insufficienti e non è possibile cambiare pacificamente le cose. Di fronte a massacri, repressioni e stupri a quei giovani non restava che reagire con le armi. Ma non era gente che sceglieva la violenza per principio. Era la risposta a una violenza più grande». Né, del resto, si possono chiudere gli occhi oggi, di fronte alla violenza che ancora domina il rapporto tra l’Occidente e l’Africa. Il colonialismo non è morto, «non solo le potenze colonialiste hanno spogliato, sfruttato e ridotto in schiavitù gli africani, ma se dureranno gli attuali ritmi di sviluppo l’Africa dovrà aspettare oltre un secolo soltanto per assicurare scuole primarie, dimezzare la povertà e ridurre sensibilmente la mortalità infantile. E’ l’Onu a dirlo. Di questa situazione è responsabile un meccanismo internazionale ed economico. Cosa altro è questo se non violenza?».