Manovre di primavera

In questi ultimi mesi, con il progressivo deteriorarsi della situazione in Iraq, l’amministrazione Bush ha dato una svolta decisa alla sua strategia in Medio Oriente, sia nella diplomazia ufficiale sia nelle – operazioni clandestine. Questa “sterzata” – cosi la definiscono alcuni alla Casa Bianca – ha avvicinato gli Stati Uniti a uno scontro aperto con l’Iran e li ha portati a intromettersi nel sempre più acceso conflitto tra musulmani sciiti e sunniti in atto nella regione.

Per contrastare l’Iran, Paese a prevalenza sciita, la Casa Bianca ha quindi deciso di rivedere da cima a fondo le sue priorità. L’amministrazione Bush – in collaborazione con l’Arabia Saudita, paese a maggioranza sunnita – conduce da tempo operazioni clandestine in Libano per indebolire Hezbollah, l’organizzazione sciita appoggiata dall’Iran. Inoltre gli Stati Uniti hanno preso parte ad altre azioni contro l’Iran e la Siria, sua alleata. Queste attività hanno avuto come effetto collaterale quello di rafforzare i gruppi estremistici sunniti che concepiscono l’islam come una religione militante, sono ostili all’America e simpatizzano con al Qaeda.

Ma la nuova strategia statunitense ha un aspetto contraddittorio: in Iraq le violenze contro i militari americani sono state commesse soprattutto dai sunniti, non dagli sciiti. E la conseguenza più rilevante (e indesiderata) della guerra in Iraq è stata un rafforzamento dell’Iran. A fine febbraio, per esempio, la guida suprema iraniana, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha dichiarato alla tv di stato: “Quello che sta succedendo nella regione indica che il grande sconfitto sarà il fronte degli arroganti guidato dagli Stati Uniti e dai loro alleati”.

Nuove alleanze

Quando la rivoluzione khomeinista del 1979 ha portato al potere un governo religioso, gli Stati Uniti hanno interrotto i rapporti con l’Iran e hanno cercato relazioni più strette con i leader degli stati arabi sunniti, come la Giordania, l’Egitto e l’Arabia Saudita. Ma i calcoli degli americani, soprattutto nei confronti dell’Arabia Saudita, sono diventati più complicati dopo l’11 settembre, perché al Qaeda è sunnita e molti dei suoi militanti provengono da circoli religiosi estremistici con base in Arabia Saudita.

Prima dell’invasione dell’Iraq, nel 2003, alcuni esponenti dell’amministrazione Bush, sotto l’influsso degli ideologi neoconservatori, hanno sposato questa tesi: poiché Saddam Hussein aveva oppresso gli sciiti, che rappresentavano la maggioranza della popolazione, agli americani conveniva instaurare in Iraq un governo sciita per bilanciare l’estremismo sunnita. Così Washington ha ignorato gli avvertimenti dell’intelligence sui legami tra i leader sciiti iracheni e l’Iran, dove alcuni di loro ave vano vissuto in esilio per anni. Intanto, con preoccupazione della Casa Bianca, l’Iran ha allacciato rapporti molto stretti con il governo iracheno, a maggioranza sciita, guidato dal premier Nuri al Maliki.

Questa nuova linea politica è stata molto discussa a Washington. Nella deposizione resa a gennaio davanti alla Commissione esteri del Senato, il Segretario di Stato Condoleezza Rice ha dichiarato che “in Medio Oriente sta avvenendo un riallineamento strategico” che consente dì distinguere i “riformatori” dagli “estremisti”. Ha anche sostenuto che i Paesi sunniti sono esempi di moderazione, mentre l’Iran, la Siria e Hezbollah stanno “dall’altra parte” (la maggioranza della popolazione siriana è alauita, una corrente sunnita). L’Iran e la Siria, ha aggiunto Rice, “hanno fatto la loro scelta, e questa scelta è la destabilizzazione”.

Ma alcuni aspetti tattici di questa “sterzata” sono rimasti nascosti. Alcune operazioni sono state tenute segrete, lasciando che fossero realizzate o finanziate dai sauditi, oppure trovando altre vie per aggirare le normali procedure parlamentari per lo stanziamento dei fondi pubblici.

I personaggi chiave dietro questa sterzata strategica in Medio Oriente sono il vicepresidente Dick Cheney, il viceconsigliere per la sicurezza nazionale Elliott Abrams, l’ambasciatore statunitense in Iraq, Zalmay Khalilzad, candidato a rappresentare gli Usa all’Onu, e infine il principe Bandar bin Sultan, Consigliere per la sicurezza nazionale del governo saudita. Condoleezza Rice si è impegnata nella definizione della politica estera ufficiale, ma le operazioni clandestine farebbero capo a Cheney.

Un altro effetto di questa svolta è stato includere l’Arabia Saudita e Israele in un nuovo abbraccio strategico, visto che per entrambi i paesi l’Iran è una minaccia alla loro stessa esistenza. Così Riyadh e Gerusalemme sono state coinvolte in colloqui diretti, e i sauditi – convinti che una maggior stabilità in Israele e Palestina contrasterebbe l’influsso iraniano nella regione – hanno aumentalo l’impegno nelle trattative arabo-israeliane.

Come mi ha detto un consulente del governo americano molto legato a Israele, la nuova strategia della Casa Bianca è “un cambiamento epocale”. I Paesi a maggioranza sunnita, ha spiegato, “erano terrorizzati dalla prospettiva di un rafforzamento degli sciiti, e la scommessa statunitense sugli sciiti moderati dell’Iraq suscitava un malcontento crescente. A questo punto non possiamo certo annullare le conquiste che gli sciiti hanno fatto in Iraq: però possiamo arginarle”.

Vali Nasr, autore di numerosi saggi sugli sciiti, sull’Iran e sull’Iraq, mi ha detto: “Nel governo statunitense si è svolto un ampio dibattito su quale sia il pericolo maggiore: l’Iran o gli estremisti sunniti. Secondo i sauditi e secondo alcuni esponenti dell’amministrazione Bush, la minaccia più grave viene dall’Iran, mentre i sunniti radicali nono un nemico minore. E una vittoria della linea saudita”.

Martin Indyk, un alto funzionario del Dipartimento di Stato sotto l’amministrazione Clinton ed ex ambasciatore in Israele, sostiene che “il Medio Oriente sta andando verso una vera e propria guerra fredda tra sunniti e sciiti”. Indyk dubita che la Casa Bianca sia pienamente consapevole delle implicazioni strategiche della sua nuova politica.

Di certo, il tentativo di contenere Teheran sembra rendere più complessa la strategia in Iraq. Ma secondo Patrick Clawson, esperto di Iran e vicedirettore degli studi presso il Washington Institute for Near East Policy, l’avvicinamento degli Usa ai sunniti moderati o addirittura a quelli radicali rischia di far temere al premier iracheno Maliki che i sunniti possano vincere la guerra civile. E questo potrebbe spingerlo a collaborare con gli Stati Uniti nella repressione delle milizie sciite come l’Esercito del Mahdi di Muqtada al Sadr.

In ogni caso, per il momento gli Usa continuano a dipendere dalla collaborazione dei leader sciiti iracheni.

Secondo Flynt Leverett, un ex funzionario del Consiglio per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush, la nuova strategia nei confronti dell’Iraq “non è casuale”. La Casa Bianca, afferma Leverett, “sta cercando di avvalorare la tesi secondo cui per gli interessi americani in Iraq, l’Iran è un pericolo più grave dei ribelli sunniti. E questo nonostante il numero di soldati americani uccisi dai sunniti”. Il tutto “rientra nel tentativo di esercitare una pressione sempre maggiore sull’Iran. L’idea è questa: prima o poi, gli iraniani reagiranno. A quel punto l’amministrazione avrà tutte le giustificazioni per colpirli”.

Lo stesso Bush, in un discorso pronunciato il 10 gennaio, ha in parte confermato che la sua tesi è proprio questa: “II regime iraniano e quello siriano permettono ai terroristi e ai ribelli di usare il loro territorio per entrare e uscire dall’Iraq. L’Iran fornisce un appoggio materiale agli attacchi contro le truppe americane. Metteremo fine a questi attacchi, interrompendo il flusso degli aiuti provenienti dall’Iran e dalla Siria. Inoltre scoveremo e distruggeremo le reti che forniscono addestramento e armi ai nostri nemici”.

Informazioni pericolose

Nelle settimane seguenti l’amministrazione Bush ha lanciato una raffica di accuse contro Teheran. L’11 febbraio sono stati mostrati ai giornalisti alcuni sofisticati ordigni esplosivi sequestrati in Iraq, che secondo la Casa Bianca provenivano dall’Iran. Essenzialmente la tesi di Washington è questa: il disastro iracheno non è frutto di nostri errori, ma dell’ingerenza dell’Iran.
In seguito i militari americani hanno arrestato in Iraq centinaia di iraniani e li hanno interrogati.

Conferma un ex alto funzionario dell’intelligence: “Ad agosto i militari hanno ricevuto ordine di catturare tutti gli iraniani che trovavano in Iraq. Ne hanno messi sotto chiave cinquecento in un colpo solo. L’obiettivo della Casa Bianca è dimostrare che l’Iran ha fomentato l’insurrezione in Iraq e continua a versare benzina sul fuoco: in altre parole, che l’Iran spalleggia chi uccide gli americani”.

Un consulente del Pentagono ha confermato che negli ultimi mesi le forze statunitensi in Iraq hanno catturato centinaia di iraniani, ma ha precisato che tra loro ci sono molti operatori umanitari e cooperanti, che “vengono prelevati e rilasciati nel giro di breve tempo”, dopo essere stati interrogati. Il 2 febbraio il nuovo Segretario della Difesa, Robert Gates, ha dichiarato: “Non stiamo pianificando una guerra con l’Iran”. Eppure la tensione è salita.

Secondo vari ufficiali del controspionaggio e delle forze armate statunitensi, in Libano e in Iran si sono svolte alcune operazioni segrete.

I timori dell’amministrazione per il ruolo che l’Iran sta svolgendo in Iraq si aggiungono al suo stato d’allerta permanente per il programma nucleare iraniano.

Il 14 gennaio, intervistato da Fox News, Cheney ha ammonito che nel giro di pochi anni potremmo vedere “un Iran dotato di armamenti nucleari, in grado di controllare le risorse petrolifere del mondo – e quindi di influire sull’economia mondiale – e disposto a servirsi di organizzazioni terroristiche e delle armi atomiche per minacciare i suoi vicini e il resto del mondo”.

Attualmente Washington sta analizzando nuove informazioni dell’intelligence sui programmi nucleari iraniani. Alcuni funzionari sostengono che tra queste informazioni, fornite da agenti israeliani che operano in Iran, ci sono indizi che Teheran abbia messo a punto un missile intercontinentale a tre stadi a combustibile solido in grado di lanciare – anche se con una precisione limitata – delle piccole testate in territorio europeo.

Un’argomentazione simile è stata il pretesto dell’invasione dell’Iraq. Molti senatori e deputati hanno accolto con cautela le accuse all’Iran. Hillary Clinton ha dichiarato in Senato il 14 febbraio: “Dal conflitto iracheno abbiamo tratto qualche insegnamento, che oggi dobbiamo applicare a ogni eventuale accusa contro l’Iran. Quello che sentiamo dire in questi giorni suona troppo familiare. Dobbiamo stare attenti a non prendere mai più una decisione sulla base di informazioni false”.

Tuttavia al Pentagono continua la pianificazione di un possibile attacco all’Iran, cominciata l’anno scorso su raccomandazione di Bush.

Un ex alto funzionario dell’intelligence mi ha confidato che in questi ultimi mesi, presso l’ufficio dei capi di stato maggiore, è stato istituito un gruppo speciale incaricato di mettere a punto un piano d’emergenza per bombardare l’Iran. Il piano deve poter essere attuato nel giro di ventiquattrore su ordine del presidente.

Inoltre ho saputo da un consulente dell’aviazione militare, che è anche consulente antiterrorismo del Pentagono, che un mese fa il gruppo di pianificazione strategica sull’Iran ha ricevuto un nuovo incarico: individuare in territorio iraniano i bersagli coinvolti nelle attività di rifornimento e assistenza agli insorti iracheni. In precedenza gli ordini erano stati di concentrarsi soprattutto sulla distruzione degli impianti nucleari iraniani e su un’eventuale operazione “cambio di regime”.

Sempre dallo stesso ex alto funzionario dell’intelligence ho saputo che i piani attuali consentirebbero un attacco in primavera. Però, ha aggiunto la mia fonte, nell’ufficio dei capi di Stato Maggiore alcuni alti ufficiali sperano che la Casa Bianca “non sia tanto stupida da fare una cosa del genere nonostante quello che e successo in Iraq e i problemi che creerebbe ai repubblicani in vista delle elezioni del 2008”.

Il gioco del principe Bandar

Nel tentativo di ridurre l’influenza iraniana in Medio Oriente, l’amministrazione Bush ha puntato molto sull’Arabia Saudita. In particolare sul principe Bandar, Consigliere per la sicurezza nazionale del governo di Riyadh e ambasciatore negli Stati Uniti per ventidue anni, fino al 2005. Bandar ha mantenuto rapporti di amicizia con Bush e con Cheney.

Nel novembre scorso, proprio Cheney è volato in Arabia Saudita per un incontro a sorpresa con re Abdullah e il principe Bandar. Secondo il New York Times, il sovrano saudita ha rivolto al vicepresidente statunitense un ammonimento: se gli Stati Uniti si ritirano dall’Iraq, l’Arabia Saudita è pronta ad appoggiare i sunniti iracheni. Riyadh ha paura che l’Iran possa stravolgere l’equilibrio non solo della regione, ma anche dell’Arabia Saudita: nella sua provincia orientale – dove si trovano grandi giacimenti petroliferi – vive una minoranza sciita e le tensioni tra i diversi gruppi confessionali sono già acute.

Secondo Vali Nasr, la famiglia reale saudita è convinta che dietro molti attentati terroristici che ultimamente hanno scosso il regno ci siano degli agenti iraniani che collaborano con gli sciiti locali: “L’unico esercito in grado di arginare l’Iran – quello iracheno – è stato distrutto dagli Usa. L’Iran potrebbe costruire la bomba atomica e comunque ha un esercito di 450mila uomini, mentre quello saudita ne ha 75 mila”.

Prosegue Nasr: “I sauditi hanno grandi mezzi finanziari e hanno rapporti molto stretti con i Fratelli musulmani e con i salafiti”, una formazione di sunniti radicali che considera gli sciiti degli apostati. “L’ultima volta che l’Iran è stato una minaccia i sauditi sono riusciti a mobilitare il peggio dell’estremismo islamista. Questa gente è come il genio della lampada: una volta uscita, è impossibile ricacciarla dentro”.
La casa reale saudita è stata di volta in volta sponsor e bersaglio degli estremisti sunniti, che criticano la corruzione e la decadenza dei suoi principi. La scommessa dei reali è che finché continueranno a finanziarie le scuole religiose e gli enti benefici legati ai fondamentalisti, riusciranno a restare al potere. E la nuova strategia dell’amministrazione americana fa molto affidamento su questa scommessa.

Nasr vede un’analogia tra la situazione attuale e quella del periodo in cui al Qaeda era nella fase emergente. Negli anni ottanta e nei primi novanta, il governo saudita si offri di finanziare la guerra clandestina in Afghanistan contro l’Unione Sovietica, condotta per conto della Cia.
Centinaia di giovani sauditi furono inviati in Pakistan dove aprirono scuole religiose, centri di addestramento e uffici di reclutamento. Allora come oggi molti degli agenti pagati dai sauditi erano salafiti: tra di essi, naturalmente, c’erano Osama bin Laden e i suoi luogotenenti, che nel 1988 fondarono al Qaeda. Ma questa volta, mi ha detto il consulente del governo americano, Bandar e altri esponenti sauditi hanno garantito alla Casa Bianca che “terranno d’occhio gli integralisti. Il messaggio che ci hanno inviato è questo: ‘Al Qaeda è una nostra creatura, quindi siamo in grado di controllarla’”.

Nell’ultimo anno, Arabia Saudita, Israele, e Washington hanno messo a punto delle intese informali sul loro nuovo indirizzo strategico.

Secondo il consulente del governo americano, gli accordi comprendono almeno quattro punti. Primo: garantire a Israele che la sua sicurezza è irrinunciabile e che Washington, Riyadh e altri paesi sunniti condividono i timori nei confronti dell’Iran. Secondo: i sauditi s’impegnano a esortare Hamas, il partito islamista palestinese appoggiato dall’Iran, a mettere fine alle aggressioni antisraeliane e ad aprire delle trattative serie per condividere la guida dell’Autorità Nazionale Palestinese con il più laico al Fatah (a febbraio, alla Mecca, le due fazioni hanno raggiunto un accordo con la mediazione saudita). Terzo: l’amministrazione Bush s’impegna a collaborare con i Paesi sunniti per contrastare il dominio sciita nella regione. Quarto: il governo di Riyadh, con il beneplacito di Washington, finanzierà e fornirà appoggio logistico per indebolire il governo del presidente siriano Bashar al Assad. I sauditi, infatti, sono ai ferri corti con la Siria perché sospettano che il governo di Damasco sia coinvolto nell’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, ucciso a Beirut nel 2005. Hariri, un miliardario sunnita, era molto legato al regime saudita e al principe Bandar.

I jihadisti in Libano

Dopo l’Iran, il punto focale del rapporto tra Stati Uniti e Arabia Saudita è proprio il Libano, dove i sauditi e la Casa Bianca cercano di sostenere il governo. Il Primo Ministro Fuad Siniora resta al potere tra mille difficoltà, contrastato da una tenace opposizione capeggiata dall’organizzazione sciita Hezbollah e dal suo leader, lo sceicco Hassan Nasrallah.

Hezbollah, che dispone di notevoli infrastrutture e secondo alcune stime può contare su due o tremila combattenti e altre migliaia di sostenitori, è dal 1997 nell’elenco delle organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato americano.

Secondo molti osservatori Nasrallah, che ha dichiarato di considerare Israele uno Stato che non ha diritto di esistere, è un terrorista irriducibile. Ma nel mondo arabo molti – soprattutto gli sciiti – lo considerano invece il capo della resistenza che ha saputo tener testa a Israele nei 33 giorni di guerra, mentre giudicano Siniora un politico debole che non può fare a meno dell’appoggio americano.

L’amministrazione Bush ha promesso di versare un miliardo di dollari di aiuti al governo Siniora. Alla conferenza dei Paesi donatori, che gli Stati Uniti hanno collaborato a organizzare a Parigi a gennaio, i partecipanti si sono impegnati a versare altri otto miliardi di dollari: di questi, oltre un miliardo dovrebbero provenire dai sauditi. Gli aiuti americani comprendono oltre 200 milioni di dollari in assistenza militare e 40 milioni destinati alla sicurezza interna.

“Abbiamo varato un programma per potenziare le capacità dei sunniti di resistere all’influenza degli sciiti, e stiamo distribuendo più soldi che possiamo”, mi ha detto l’ex funzionario dell’intelligence. “Strada facendo stiamo finanziando un sacco di gentaglia, il che potenzialmente ha delle conseguenze indesiderate: è un’iniziativa molto rischiosa”.

Esponenti statunitensi, europei e arabi con cui ho parlato mi hanno riferito che il governo Siniora e i suoi alleati hanno permesso che parte dei fondi finissero in mano a gruppi estremistici sunniti emergenti che hanno le loro basi nel nord del Libano, nella valle della Bekaa, e a sud, nei campi profughi palestinesi. Queste formazioni, benché numericamente ridotte, sono considerate un cuscinetto nei confronti di Hezbollah. Ma al tempo stesso hanno legami ideologici con al Qaeda.

L’amministrazione Bush ha presentato il suo appoggio al governo Siniora come un esempio di fiducia nella democrazia e del suo desiderio di impedire ad altre potenze di interferire nella situazione libanese. A dicembre, quando a Beirut si sono svolte delle manifestazioni di piazza guidate da Hezbollah, l’allora ambasciatore statunitense all’Onu John Bolton le ha giudicate un “tentato colpo di stato ispirato dall’Iran e dalla Siria”.

A gennaio, dopo un’esplosione di violenze a Beirut a cui hanno partecipato sia i sostenitori del governo Siniora sia quelli di Hezbollah, il principe Bandar è andato a Teheran per discutere dell’impasse politica in Libano e per incontrare Ali Larijani, il negoziatore iraniano sulle questioni nucleari.

Secondo un ambasciatore mediorientale, la missione di Bandar era appoggiata dalla Casa Bianca e mirava “a creare discordia tra l’Iran e la Siria”. Ma l’operazione, mi ha detto l’ambasciatore, “non ha funzionato. La Siria e l’Iran non si tradiranno a vicenda. È improbabile che il tentativo di Bandar vada in porto”.

Walid Jumblatt, capo della minoranza drusa in Libano e acceso sostenitore di Siniora, ha attaccato Nasrallah definendolo un agente siriano e ha dichiarato più volte ai giornalisti stranieri che Hezbollah è direttamente controllato dalla leadership religiosa iraniana.

In un colloquio che ho avuto con lui a dicembre, ha definito il presidente siriano Bashar al Assad un “serial killer”. Secondo lui, Nasrallah è “moralmente colpevole” dell’assassinio di Rafiq Hariri e di quello, avvenuto nel novembre del 2006, di Pierre Gemayel, un esponente del governo Siniora accusato di appoggiare i siriani. Lo stesso Jumblatt mi ha poi detto di essersi incontrato con Cheney a Washington lo scorso autunno per discutere di come fermare Assad.

Jumblatt e i suoi colleghi hanno avvisato Cheney che se gli Stati Uniti vogliono davvero tentare qualche mossa contro la Siria, “quelli con cui parlare” sono i Fratelli musulmani siriani.

Si tratta del ramo siriano del movimento sunnita radicale fondato in Egitto nel 1928, che per oltre dieci anni ha condotto un’opposizione violenta al regime del padre di Bashar, Hafez al Assad. Nel 1982 i Fratelli musulmani hanno preso il controllo della città siriana di Hama: Assad l’ha bombardata per una settimana di fila, uccidendo tra le seimila e le ventimila persone.

In Siria l’appartenenza ai Fratelli musulmani è punibile con la pena capitale. Il movimento è inoltre nemico giurato degli Stati Uniti e di Israele. Ciò nonostante, mi ha riferito Jumblatt, “abbiamo detto a Cheney che l’anello di congiunzione fondamentale tra l’Iran e il Libano è la Siria e che, per indebolire l’Iran, occorre aprire la porta a un’opposizione siriana efficace”.

Ci sono alcuni indizi del fatto che la nuova strategia dell’amministrazione Bush ha già portato alcuni vantaggi ai Fratelli musulmani. A sentire un ex alto funzionario della Cia, “gli americani hanno fornito aiuti politici e finanziari. Adesso i finanziamenti sono prevalentemente sauditi, ma l’impegno americano continua”.

Jumblatt si è detto consapevole che la Casa Bianca è di fronte a un problema molto delicato: “Ho detto a Cheney che nel mondo arabo, e soprattutto in Egitto” – dove la leadership è sunnita ma moderata, e combatte da decenni il movimento islamico interno – “c’è chi non approverà l’aiuto dato ai Fratelli musulmani. Ma se non affrontiamo la Siria, ci ritroveremo a dover condurre una lunga lotta contro Hezbollah in Libano. Una lotta che potremmo anche non vincere”.

Lo sceicco

Un’anticipazione dei possibili effetti della nuova strategia dell’amministrazione Bush in Libano l’ho avuta in una serata mite e limpida all’inizio di dicembre, in un quartiere poco a sud del centro di Beirut semidistrutto dai bombardamenti. Lo sceicco Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah da tempo in clandestinità, aveva accettato di farsi intervistare dopo aver concordato elaborate misure di sicurezza. Cosi, seduto sul sedile posteriore di un’auto con i vetri scuri, sono stato accompagnato in uno scalcinato garage sotterraneo. Dopo avermi perquisito con un metal detector, mi hanno messo su una seconda auto che mi ha condotto in un altro sotterraneo che mostrava i segni dei bombardamenti, e poi abbiamo cambiato posto una terza volta.

Si sa che Israele sta cercando di uccidere Nasrallah, ma dietro quelle eccezionali misure di sicurezza c’erano anche altre considerazioni. I sottoposti di Nasrallah sono convinti che sia nel mirino anche di altri arabi: in primo luogo dell’intelligence della Giordania (il cui re Abballah II ha ammonito che un governo sciita in Iraq, vicino all’Iran, rischia dì portare alla nascita di una “mezzaluna sciita”), ma anche degli jihadisti sunniti, affiliati secondo loro ad al Qaeda. Che ironia: la guerra dell’estate scorsa contro Israele ha trasformato Nasrallah – uno sciita – nella figura più popolare di tutta la regione.

Nasrallah – vestito con l’abito tipico dei religiosi – mi aspettava in un anonimo appartamento dove, come mi ha poi spiegato uno dei suoi consiglieri, probabilmente non avrebbe dormito. Il leader di Hezbollah vive in clandestinità da luglio, cioè da quando ha ordinato di rapire due soldati israeliani nel corso di un’incursione oltre frontiera, scatenando la guerra. In seguito ha ammesso di aver sbagliato previsioni sulla reazione israeliana: “Volevamo solo fare dei prigionieri per usarli come moneta di scambio”, mi ha spiegato. “Non avevamo nessuna intenzione di trascinare tutta la regione in una guerra”.

Durante il nostro colloquio, Nasrallah ha accusato l’amministrazione Bush di collaborare con Israele a fomentare deliberatamente una fitna, termine arabo che significa “insurrezione e frammentazione in seno all’Islam” “I mezzi d’informazione di tutto il mondo hanno montato una campagna colossale per mettere le parti l’una contro l’altra”, mi ha detto il capo di Hezbollah. “Secondo me” ha proseguito, “è una manovra dei servizi segreti statunitensi e israeliani”. È convinto che l’obiettivo di Bush sia quello di “ridisegnare la carta geografica della regione”.

“Gli americani”, ha spiegato Nasrallah, “vogliono la spartizione dell’Iraq. Non è vero che l’Iraq è sull’orlo della guerra civile: la guerra c’è già. Ed è in corso anche una pulizia etnico-religiosa. Lo scopo delle uccisioni e degli sgomberi forzati è quello di porre le premesse della spartizione dell’Iraq creando tre settori diversi, etnicamente e religiosamente ‘puri’. Entro uno o due anni al massimo ci sarà un’area totalmente sunniti, una sciita e una kurda. E anche Baghdad potrebbe essere divisa in due settori, uno sunnita e uno sciita”. “Verrà un giorno”, ha previsto Nasrallah, “in cui Bush potrà dire: “Io non posso fare nulla: gli iracheni vogliono la spartizione del loro paese e io rispetto i desideri del popolo”.

Il capo di Hezbollah sostiene che l’America punta anche alla spartizione del Libano e della Siria.
In Siria, ha detto, le conseguenze sarebbero “il caos e la guerra civile, come in Iraq”, mentre in Libano “sorgerebbero uno stato sunnita, uno alauita, uno cristiano e uno druso. Non so invece” ha aggiunto, “se ci sarà mai uno stato sciita”.

Nel nostro colloquio, Nasrallah mi ha detto poi di sospettare che uno degli obiettivi dei bombardamenti israeliani sul Libano dell’estate scorsa era “distruggere le zone sciite e cacciare gli sciiti dal Libano. L’idea era di costringere gli sciiti libanesi e siriani a cercare riparo nel sud dell’Iraq”. La spartizione, ha spiegato, lascerebbe Israele circondata da “piccoli stati tranquilli”: “Le posso assicurare che sarà spartito anche il regno saudita e che questa tendenza si affermerà anche nel Nordafrica, con la creazione di piccoli stati etnico-confessionali. In altre parole”, ha aggiunto Nasrallah, “Israele finirà per diventare lo stato più solido della regione. Ecco come sarà il nuovo Medio Oriente”.

In realtà, l’amministrazione Bush ha sempre rifiutato anche di discutere della spartizione dell’Iraq, e le sue dichiarazioni fanno pensare che per il futuro immagini un Libano integro con un Hezbollah debole e disarmato, in grado di svolgere tutt’al più un ruolo politico secondario. Nulla, quindi, che confermi i sospetti di Nasrallah.

Comunque sia, quando Nasrallah prevede un conflitto confessionale di vaste proporzioni con il coinvolgimento degli Stati Uniti, non fa che anticipare uno dei possibili effetti della nuova strategia Usa. Tra l’altro, il capo di Hezbollah rni ha detto di non avere alcun interesse a scatenare un’altra guerra contro Israele, aggiungendo però che prevede un nuovo attacco israeliano tra qualche mese, e che si sta preparando.
Dentro e fuori dall’amministrazione Bush i pareri si dividono sia sul comportamento da tenere nei confronti di Nasrallah sia sull’opportunità di considerarlo un possibile interlocutore per una soluzione politica.

Nel 2002 l’allora Vicesegretario di Stato americano, Richard Armitage, ha definito Hezbollah “il numero uno” del terrorismo; poi però, in un’intervista, ha ammesso che la questione si è fatta un po’ più complessa.

In un colloquio, Armitage mi ha fatto notare che Nasrallah è venuto alla ribalta “come forza politica di un certo peso, in grado dì avere un ruolo politico in Libano”. Sul piano delle relazioni pubbliche e dei tatticismi politici, ha detto Armitage, Nasrallah “è l’uomo più furbo del Medio Oriente”, ma – ha aggiunto – “dovrebbe dire chiaramente che intende fare un’opposizione leale”.

All’insaputa del congresso

Robert Baer, a lungo agente della Cia in Libano, è tra quelli che hanno duramente criticato Hezbollah per i suoi legami con i terroristi finanziati dall’Iran. Ma adesso, afferma Baer, “gli arabi sunniti si preparano a un conflitto di dimensioni enormi, perciò avremo bisogno di qualcuno che protegga i cristiani del Libano. Un tempo l’avrebbero fatto Francia e Stati Uniti. Oggi invece saranno Nasrallah e gli sciiti. Ma la notizia più importante dal Medio Oriente”, ha aggiunto Baer. “è la crescita di Nasrallah: da piccolo criminale di strada a leader, da terrorista a statista. Ebbene, il terrorismo sciita è il cane che quest’estate, durante la guerra con Israele, non ha abbaiato”.

La battuta di Baer si riferisce ai timori dei mesi passati, e cioè che lo sceicco, oltre a sparare razzi su Israele e a rapire i soldati, potesse ordinare un’ondata di attentati terroristici contro obiettivi israeliani e statunitensi in tutto il mondo. “Nasrallah poteva benissimo tirare il grilletto” conclude Baer, “e invece non lo ha fatto”.

A Washington la tendenza dell’amministrazione Bush a condurre operazioni clandestine all’insaputa del Congresso, trattando con intermediari quanto meno discutibili, ha ricordato ad alcuni un capitolo passato della storia americana. Vent’anni fa l’amministrazione Reagan finanziò illegalmente i Contras del Nicaragua con la vendita clandestina di anni all’Iran e il coinvolgimento di finanziatori sauditi: fu lo scandalo Iran-Contra.

Due anni fa quello scandalo fu discusso in modo informale da alcuni veterani, che spiegarono le “lezioni” che ne avevano tratto. La conclusione è stata che anche se il piano alla fine fu scoperto, erano riusciti a realizzarlo senza informare il Congresso.

Il consulente del Pentagono che ho già citato ha aggiunto che una delle difficoltà dal punto di vista del controllo dell’operazione era quella di tenere il conto dei fondi neri: “C’è un’enorme quantità di soldi sparsi un po’ dappertutto e usati per una vasta gamma dì missioni da un capo all’altro del mondo”, ha detto. Secondo l’ex alto funzionario dell’intelligence e un ex generale, il caos delle finanze pubbliche irachene – miliardi di dollari che non si sa come siano stati spesi – ha fatto di quel Paese il canale perfetto per transazioni del genere.

“E una situazione che riporta ai tempi dello scandalo Iran-Contra”, mi ha detto un ex assistente del Consiglio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti: “Laggiù c’è gente la cui preoccupazione principale è tenere lontana la Cia”. Secondo la mia fonte, nessuno riferisce fino in fondo al Congresso sulla portata delle operazioni americane e saudite, e la Cia “continua a chiedere: ‘Che diavolo sta succedendo?’. Sono terrorizzati, perché hanno l’impressione di trovarsi di fronte a una specie di ‘ora del dilettante’”.

Ma il Congresso sta cominciando a interessarsi al problema della supervisione di certe operazioni.

Un senatore democratico dell’Oregon, Ron Wyden, che fa parte della Commissione per i servizi segreti del Senato, mi ha detto: “L’amministrazione Bush ha mancato più volte al suo dovere istituzionale di tenere informata e aggiornata la Commissione. Più di una volta ci siamo sentiti dire: ‘Fidatevi di noi’. Ma fidarmi dì quest’amministrazione è sempre più difficile”.