Manca la sinistra unita

Dopo il 13 maggio è stato detto: il problema è la sinistra. Una affermazione di buon senso, verificata dalla realtà. Sbaglieremmo se riducessimo questa realtà al dato del risultato elettorale. Il problema è a monte. Si può scegliere la via breve, quella media, o quella lunga, per descrivere la discesa verso un destino che quasi sembra adesso di dissoluzione. La via breve è quella del decennio, dal dopo ’89 in poi. Il periodo medio è quello che parte dalla metà degli anni settanta e include tutti gli anni ottanta. Il periodo lungo è il cinquantennio, dal secondo dopoguerra ad oggi. Qui parleremo dell’ultimo decennio, ma teniamo presente che se la discussione partirà sul serio e se si concentrerà sull’impianto strategico da dare a un processo di ricostruzione della sinistra, il possesso intellettuale dei tempi medi-lunghi diventerà necessario.
Il problema è la sinistra europea, di cui quella italiana è stata, e continua ad essere, in forme diverse, una eccezione, una anomalia, ma anche una componente che ha contato e che conta. Qui il problema è: l’opportunità, l’occasione, di tredici paesi su quindici, in Europa, con la sinistra al governo, che cosa ha portato, che cosa ha cambiato? Non si è afferrato il filo che poteva sciogliere il nodo: leggere la mondializzazione dell’economia dal punto di vista di una politica europea. Si è assolutizzata la moneta unica invece di relativizzarla come volano di un intervento della storia d’Europa nell’economia-mondo. L’Europa dei lavori, e dei lavoratori, non poteva essere, non può essere, un’idea-forza da spendere, proporre, organizzare, articolare, dall’alto dell’esperienza di governo? Anche di queste cose, bisognerebbe trovare la sede per discutere.
Ma isoliamo il tema della transizione italiana. Questo sembra essere il punto di crisi che sta dietro l’irrompere della nostra sinistra come problema. Non siamo riusciti a realizzare una direzione politica della transizione. Ecco il motivo di fondo per cui questa oggi si chiude con la vittoria dell’antipolitica. Qui c’è una legge generale dei processi interni alle società capitalistiche: o riesci a dirigerli, questi processi, o, abbandonati alla loro spontaneità, ti si rivoltano contro, e vanno in tasca alle forze dominanti. L’abbandono, forse inevitabile, del dirigismo statale non è stato accompagnato dall’assunzione di altre forme di direzione politica. Su questo la sinistra di governo è destinata a perdere, prima o dopo, qui o là. Dirigere vuol dire anche progettare, sapere da dove si viene, sapere dove si va e, in mezzo, approntare le mosse giuste al momento giusto. Qui la politica come professione vale più che tutte le virtù della società civile.
Bisogna mettere al centro dell’analisi il decennio passato. Le due vicende, parallele e in un certo senso complementari, sono quelle del sistema politico e del partito della sinistra. Si è detto che l’unico partito sopravvissuto al crollo di regime dei primi anni novanta sia stato il Pci sotto la nuova veste del Pds. Questo ha dato luogo all’immaginario berlusconiano, diventato quasi senso comune di massa, che in Italia negli ultimi cinquant’anni hanno governato i comunisti. Una trovata pubblicitaria, che vendeva però un prodotto reale, tanto è vero che gli elettori alla fine lo hanno comprato, soprattutto dopo l’esperienza confermativa dei governi di centro-sinistra, uno dei quali addirittura guidato da un riconosciuto esponente del ceto politico comunista. Questo ceto ha in effetti assicurato la vera continuità tra la cosiddetta prima e la cosiddetta seconda Repubblica. Una cattiva continuità: perché tutta giocata sull’obiettivo di far dimenticare la propria origine, anzi l’intera propria storia, senza prevedere che questo avrebbe consegnato a una damnatio memoriae l’intera stessa storia repubblicana. Le conseguenze sono state devastanti per la formazione di un’opinione pubblica che, per la via di altre cause, tra cui l’incanaglirsi della vita quotidiana e l’involgarirsi dei mezzi di comunicazione, va e arriva a una deriva di qualunquismo, non più solo apolitico ma antipolitico. Se non vogliamo ridurre il problema della sinistra al solito sdegnato appello al tradimento dei capi, dobbiamo riconoscere che c’è oggi una difficoltà oggettiva, enorme, per le idee, per le parole, della sinistra, a nuotare in quest’acqua, a respirare in quest’aria, dei modi di sentire, dei modi di vedere, dei modi di vivere, in assoluto dominanti. La sinistra ufficiale ha la colpa di aver lasciato, per pochezza d’animo e per miseria concettuale, forse per interesse di ceto, che s’instaurasse questo clima. Adesso si paga il conto.
Scelgo consapevolmente questo taglio del discorso. Mi aspetto l’obiezione: va bene, ma adesso parliamo dei rapporti di produzione. Credo anch’io che, in ultima istanza, è li che si decide di tutto il resto. Ma sento, con l’istinto del pensiero, che c’è un vuoto di riflessione su aspetti inediti della dimensione pubblica, che ci sono piombati addosso, senza essere riusciti a scansarci. Non è, per carità, la `nuda vita’, il biologico nel politico, non è nessuna delle ideologie subalterne del post-moderno. Ma c’è da rilevare lucidamente che, in questa crisi culturale della tarda modernità, c’è qualcosa delle nostre categorie, forse lo stesso impianto metodologico, non dico che non funziona più, ma che certo non è più autosufficiente. Penso, per scendere a una maggiore concretezza, che nel dopo ’89, sia sul versante del sistema politico sia sul versante della forma-partito, bisognasse istituire, con una operazione di alto respiro strategico, una continuità simbolica e una discontinuità politica.
Spiego questa affermazione. Sul sistema politico. Fin dal `91-’92 andava elaborato e proposto un progetto organico di riforma della Costituzione. Lo strumento naturale era quello dell’Assemblea costituente. Se si doveva passare alla seconda Repubblica, si doveva prendere la via maestra del mandato popolare diretto allo scopo. Si è presa la scorciatoia deviante delle riforme elettorali, per di più attraverso lo strumento del referendum abrogativo di pezzi delle vecchie leggi. Nessuno ne parla più. Ma l’esito disperante di quest’ultima legge truffa maggioritaria è sotto gli occhi di tutti. Contro i partiti si è dato tutto il potere alle coalizioni. Vince non chi ha più forza politica nel paese, ma chi ha più capacità di coalizione nel Palazzo. E poi. L’anomalia italiana vede adesso da noi non il partito personale, ma la coalizione personale. Democrazia rappresentativa, addio. Esempio: Casini-Buttiglione non è che rappresentano qualcosa, hanno solo scelto l’aggregazione giusta, per loro. Risultato: col 3% dei voti portano a casa 72 parlamentari. Ci piacerebbe sentire, almeno da qualcuno, un serio mea culpa sulla smania referendaria che prese i ds dopo la svolta dell”89. L’idea del cittadino sovrano che direttamente decide la qualità del governo poteva realizzarsi solo dopo che avesse preso forma e si fosse radicato nel paese l’assetto costituzionale-sociale di una nuova Italia, e un’altra stagione politica avesse suscitato nuove passioni politiche. Solo una crescita politica di massa poteva impiantare l’avvento di una sovranità democratica senza partiti.
È avvenuto il contrario. Il bourgeois si è mangiato il citoyen. E in mano al bourgeois si è messa la public choice. Berlusconi presidente è la metafora di questo evento. È avvenuto qui, paradigmaticamente, quello che si diceva sopra. Se, dentro una crisi di sistema politico, non prendi tu l’iniziativa di cambiamento della Costituzione formale, che ne salvaguardi i princìpi di valore, ti ritroverai davanti, vincente, una costituzione materiale, che quei princìpi nega. Dov’è oggi la «Repubblica fondata sul lavoro»? Dagli anni ottanta, in particolare dalla sconfitta della lotta sulla scala mobile, ha preso le mosse la vicenda di una repubblica fondata sull’impresa, che anche qui trova la sua conclusione naturale nella figura dell’imprenditore capo del governo. La storia non fa sconti, se non la possiedi, e controlli, e indirizzi, con la politica.
Il partito serve a questo. A tutto, tranne che a questo, è servito il partito della sinistra post-comunista. La radice della crisi è qui. Non si è realizzata la discontinuità politica sui punti dove ce n’era effettivo bisogno: la forma dell’organizzazione, il metodo della decisione, la pigrizia culturale, e la conseguente tendenziale subalternità alle idee dominanti, dell’ultimo Pci. Non si è avuto il coraggio di marcare una continuità simbolica sui punti, che sono poi quelli che fanno consenso: il carattere di massa del partito, e dunque il radicamento nelle pieghe della società, l’appartenenza, la militanza, conseguenti alla motivazione di essere buoni combattenti di una causa giusta che andava ben oltre il qui e l’ora. Ma come si tiene insieme, e perché dovrebbe stare insieme, un popolo della sinistra, in assenza di questi elementi mobilitanti? E, badate, non si tratta di valori, si tratta di idee-forza. E cioè non pietistici appelli ad amare il prossimo tuo. Ma motivi di contrasto e organizzazione del conflitto contro chi comanda, chi possiede, per sé, insieme ricchezza e potere, e dunque effettivo dominio, anche quando questo si esercita nelle belle forme democratiche.
Posso sbagliare, e spero anche di sbagliarmi, ma da quello che si vede ad occhio nudo, si può ripetere questo: il Pds del dopo Pci, è un partito mai nato. Quando si dice che i Ds non sono esistiti nella campagna elettorale perché non si sono visti né Veltroni né D’Alema, questo si confessa. Alle regionali, D’Alema si era visto, e da Presidente del consiglio, eppure non è andata meglio. La verità è che un partito della sinistra non può ridursi alla visibilità del leader. Questo va ancora bene per una Margherita. E va benissimo per l’opinione passiva che si orienta sul centro-destra. Ma si deve sapere cha a sinistra ci sono masse attive, che esprimono soggettività, e praticano politica della convinzione. Vogliono fatti, ma anche idee, non disdegnano una pratica realistica, ma vogliono leggerla sempre in una visione di prospettiva. Se manca l’una cosa o l’altra si ha il 16% o il 5% dei consensi.
È chiaro che dalla base di questi numeri bisogna ripartire. Ma sapendo una cosa, e cercando di capirla questa cosa: c’è almeno una metà della sinistra che sta oggi fuori dei suoi partiti. Se le cose stanno così, il futuro diventa meno cupo. Ci sono energie fresche, intelligenze sprecate, un fare disponibile non messo in azione, risorse accumulate non spese, un sentire diffuso e nascosto, di sinistra, che si sente non espresso, non rappresentato. Perché l’offerta politica che viene dalle fonti ufficiali è troppo povera, la proposta di coinvolgimento collettivo è poco interessante, e così tutte e due le cose, la linea politica e il modello organizzativo, risultano non all’altezza. Primo compito: far emergere il sommerso della sinistra. Per farlo, occorre che si veda un ricostruito gruppo dirigente, armato di un progetto strategico, in grado di organizzare politica sul breve-medio-lungo periodo.
Dire `sinistra plurale’ non è sufficiente. La sinistra molteplice c’è già. È la sinistra unita che manca. L’unità si articoli poi in forme inedite: su questo, e non solo su questo, c’è da lavorare. Credo che bisognerebbe far tornare il tempo dell’immaginazione al potere: questa volta al potere del nuovo partito.