«Maledette vignette» l’ira contagia il mondo arabo

Da un capo all’altro del mondo arabo-islamico ma anche fuori dei suoi confini – pensiamo all’India, ad alcuni paesi europei e perfino alla lontana Australia – dilagano senza sosta le manifestazioni di protesta, anche assai violente, contro le vignette “blasfeme” sul profeta Maometto: incendi e devastazioni a Damasco e a Beirut, qui anche con morti e feriti; un sacerdote cattolico ucciso in Turchia (anche se l’episodio ha ancora contorni non chiari); bandiere danesi e norvegesi bruciate un po’ dovunque; morti in Afghanistan; folle che sfilano nelle vie di tante città gridando ad alta voce la loro rabbia e la loro protesta.
Sembrerebbe essercene a sufficienza per dare fiato gli sciagurati fautori ed esegeti dello “scontro di civiltà”, su entrambi i versanti di questo spartiacque che sembra dividere un’Europa preoccupata e anche un po’ colta (forse a torto) di sorpresa e un universo islamico in ebollizione: fortunatamente non è così, o per lo meno non lo è ancora. Non lo è perché le manifestazioni di violenza, per quanto massicce, sono pur sempre opera di minoranze; non lo è perché i governi europei e occidentali hanno scelto saggiamente di evitare ogni scontro frontale; e non lo è infine perché le stesse autorità religiose islamiche, in luoghi rivelatisi nevralgici come Beirut, il Cairo e alcuni centri del tormentato Iraq, sono scese in campo per cercare di calmare gli animi e di incanalare la protesta nei binari della legalità. Ed è significativo in proposito l’episodio di Nablus, in Cisgiordania, dove gli esponenti di Hamas sono intervenuti sui manifestanti in teoria “laici” di Al Fatah appunto per impedire episodi di violenza; a dimostrazione che sarebbe sempre bene guardare alle vicende del Medio Oriente fuori dagli stereotipi e dalle formule precostituite.

Proprio quest’ultimo episodio ci fornisce fra l’altro lo spunto per qualche motivo di riflessione. Anzitutto la stragrande maggioranza, per non dire la quasi totalità, di coloro che manifestano non ha mai visto le vignette in questione, uscite per di più in Danimarca ben quattro mesi fa; segno evidente che c’è stato qualcuno che si è preso la briga di diffonderne la notizia e di sollecitare la protesta, per di più a scoppio ritardato; il che non vuol dire naturalmente fare della dietrologia a tutti i costi o pensare chissà quali complotti, ma più semplicemente immaginare che la vicenda sia stata colta a pretesto, in modo magari anche separato e convergente, per mobilitare su scala regionale quelle masse che hanno più che legittimi e comunque comprensibili motivi di frustrazione e di rivolta contro un Occidente – squisitamente politico e non religioso – tanto lontano quanto arrogante, chiuso nei suoi interessi e fautore di quella politica dei “due pesi e due misure” che arabi e islamici denunciano non da ieri. Allora appare meno fortuito, o più comprensibile, il fatto che a manifestare non siano soltanto gli integralisti islamici ma anche ex gruppi “laici” o comunque secolari come appunto Al Fatah in Palestina; e ancora induce a riflettere il fatto che gli episodi più gravi (Trebisonda a parte) siano accaduti nella più che laica Damasco del regime baasista e nel Libano multiconfessionale, qui rievocando fra l’altro gli spettri della guerra apparentemente di religione del 1975-91. Con ipotesi diverse e anche contraddittorie.

Il leader druso libanese Walid Jumblatt non si è fatto sfuggire l’occasione di sparare a zero contro il regime di Bashar el Assad accusato di voler «diffondere il caos in Libano e nella regione» per reagire alle pressioni e alle minacce cui è sottoposto da parte americana e occidentale e per rinsaldare così l’“asse” con l’Iran di Ahmadinejad; ma non è certamente l’unica chiave di lettura, e c’è infatti chi ipotizza che si possa trattare invece di un tentativo di destabilizzare Damasco che starebbe cautamente cercando di “aprire” agli Stati Uniti.

La crisi politica che si è aperta in Libano dopo i fatti dell’altroieri difficilmente potrebbe, in un momento come questo, giocare a vantaggio di Bashar. Come che sia appare chiaro che molti degli eventi cui stiamo assistendo hanno ben poco a che fare con le vignette incriminate, ferma restando ovviamente la loro inaccettabilità (che non c’entra nulla con la libertà di espressione) e la miopia, a dir poco, di chi le ha prima pubblicate e poi rilanciate.

Il problema investe tuttavia anche gli stessi regimi dei paesi arabi ed islamici, che hanno tutto da temere – nella loro grande maggioranza e visti i legami di molti di loro con gli Usa e con l’Occidente – dal diffondersi di agitazioni promesse e alimentate da quei movimenti fondamentalisti che sono quasi dovunque all’opposizione e il cui impatto a livello di base è così ben esemplificato dall’esito delle elezioni palestinesi. Si spiega così l’accorato appello della Lega araba a distinguere tra “la diffamazione dell’Islam” e “l’esplodere delle violenze” e a riportare il problema sul terreno del rispetto delle fedi altrui, ma anche – aggiungiamo noi – a restituire i suoi reali connotati a una protesta e a un confronto che, al di là del pretesto religioso, sono essenzialmente di carattere politico, economico e sociale.