Sabato alla Fiera di Roma si discute di programmi e di una nuova cultura politica per la sinistra. Che troppo spesso è stata subalterna alle leggi di mercato o ai trattati liberisti. Come per la presunta indiscutibilità del Patto di stabilità di Maastricht. Ma per rilanciare economicamente e socialmente il paese la priorità non è abbattere il debito pubblico. Anzi
Da oltre dieci anni l’economia europea è in sostanziale stagnazione e registra performance ben inferiori a quelle degli Stati Uniti, dei paesi del sud-est asiatico e del Giappone. Le principali cause di ciò sono state più volte denunciate: le politiche fiscali e monetarie restrittive, il pieno affidarsi alla flessibilità dei mercati. In poche parole: la scelta del modello macroeconomico effettuata a Maastricht. Questa scelta, è bene chiarirlo, non ha semplicemente inciso sulle dinamiche produttive dell’Unione. Essa ha anche e soprattutto accentuato gli squilibri nella distribuzione del reddito, nei processi di divergenza tra regioni ricche e regioni povere, nello iato tra le condizioni bio-fisiche di riproduzione del «capitale naturale» e la realtà dell’attacco quotidiano all’ecosistema. Il centro-sinistra italiano tarda a prendere coscienza della perniciosità di Maastricht, e anzi le forze moderate in suo seno sembrano essersi felicemente erette a paladine del Trattato e del Patto di Stabilità. Esse guardano con preoccupazione persino alle timide (talvolta risibili) proposte di «ammorbidimento» del Patto, come quelle relative alla introduzione di modalità di calcolo del 3% (deficit/Pil) con riferimento a medie mobili pluriennali o quelle che vanno nella direzione di introdurre elementi di ponderazione nella valutazione dell’entità del deficit, come la golden rule. Con ciò lasciando nientemeno che a Berlusconi il monopolio politico della critica italiana al Patto. Una posizione ovviamente inaccettabile, quella di Berlusconi, il quale tenta di liberare risorse per detassare la classe agiata e manca completamente di cogliere la vera sostanza del problema.
A riguardo, chi scrive ha già tentato di chiarire che occorrerebbe andare molto al di là di una semplice revisione del Patto di Stabilità e rimettere in discussione non solo i vincoli al deficit e al debito ma anche e il ruolo della politica monetaria, permettendo che la Bce finanzi la spesa pubblica in disavanzo e porti i tassi di interesse nominali al di sotto del tasso di crescita del pil nominale, ponendo così fine alla teoria e alla pratica del «banchiere conservatore» imposta dal Trattato. Si tratta, insomma, di rimettere in discussione l’intero palinsesto macroeconomico della Ue. Ma occorre fare i conti con la parte moderata, maggioritaria, dell’alleanza democratica. Ed è evidente che, allo stato attuale della vicenda politico-economica, la sinistra non ha nessuna possibilità di far passare nel programma della alleanza una proposta di attacco diretto al sistema di Maastricht.
La situazione è quella che è, dunque, ma restare muti sarebbe assurdo. E’ per questo che forse sarebbe il momento di prendere sul serio la proposta già lanciata da Emiliano Brancaccio e dal sottoscritto dalle colonne di Liberazione (20 novembre 2004). La sinistra dovrebbe convincersi a presentarsi compatta al tavolo programmatico con le forze moderate della alleanza opponendosi con forza a qualsiasi politica di abbattimento del debito. Si tratta, è bene chiarirlo subito, di una proposta che non condurrebbe a una sanzione automatica da parte della Ue, ma aprirebbe al tempo stesso uno spazio di manovra tecnico e politico di enormi proporzioni rispetto alla situazione corrente. Il Trattato di Maastricht, infatti, norma in modo significativamente diverso le due clausole del rapporto deficit/pil (fissato al 3%) e del rapporto debito/pil (fissato al 60%). È ben noto che in caso di superamento della soglia del 3%, è prevista l’attivazione di un meccanismo sanzionatorio; tuttavia, si è visto recentemente, a seguito delle violazioni operate da Francia e Germania e delle conseguenti delibere assunte dalla Commissione Europea e dall’Ecofin, che questo meccanismo non è per nulla automatico – secondo quella che era l’interpretazione in voga presso la tecnocrazia europea – bensì soggetto a vaglio politico. Il che significa che la soglia del 3% non è più da ritenersi così rigida. Per quanto attiene alla clausola del 60% nel rapporto debito/pil, il Trattato non prevede alcun meccanismo sanzionatorio, ma si limita ad auspicare ritmi di avvicinamento «soddisfacenti» a quella soglia. In sostanza, dunque, non è operativo alcun meccanismo di «dissuasione» al mancato avvicinamento alla soglia del 60%. Dunque, a una proposta di non abbattimento del debito che provenisse dalla sinistra, l’ala moderata della alleanza non potrebbe opporre lo spauracchio di sanzioni Ue.
Cionondimeno, la proposta non piacerà ai moderati dell’alleanza. Questi continuano a ritenere che occorra procedere sulla strada del ridimensionamento del debito pubblico. A loro avviso, bisognerebbe imporre oggi altri sacrifici – in termini essenzialmente di ulteriore contrazione della spesa pubblica e accumulo di significativi avanzi primari – per godere domani dei benefici effetti della riduzione del carico di interessi sul debito. Qui il problema si fa tecnico e la sensazione è che gli economisti moderati del centro-sinistra non siano in grado (o non intendano) far bene i calcoli. Infatti, supponendo di seguire i moderati nella loro idea di un rientro rapido (supponiamo in 10 anni, come nell’idea del vecchio, indimenticato piano Ciampi) alla soglia del 60% e adottando ipotesi prudenziali sui valori futuri del tasso di interesse nominale e del tasso di crescita del pil nominale, le conclusioni cui si arriva sono non poco preoccupanti. Infatti, l’abbattimento del debito al 60% del pil sarebbe raggiungibile a patto in mettere in fila, per 10 lunghi anni, avanzi primari di poco superiori al 5% del pil. Immaginiamoci quale sarebbe lo stato del paese al termine di questa stagione di lacrime e sangue. Per contro, operando con i dati di cui sopra (e prescindendo dal vincolo del 3%), se prevalesse la tesi del non abbattimento del debito sarebbe sufficiente procedere con avanzi primari estremamente più contenuti, non superiori all’1% del pil. Per chiarirci le idee con un esempio, la politica di rientro dal debito applicata al 2004 avrebbe richiesto un avanzo primario (e cioè eccessi delle entrate sulle spese al netto interessi) per oltre 67 miliardi di euro (più del doppio di quello operato dal governo Berlusconi); viceversa, la politica di stabilizzazione farebbe scendere l’avanzo primario a poco più di 13 miliardi di euro. Come si vede, la differenza tra le due opzioni è enorme. La sinistra deve pertanto respingere qualsiasi politica di abbattimento del debito pubblico: solo perseguendo questa linea si potranno reperire le risorse necessarie all’avvio di un rilancio economico, produttivo e sociale del paese. Solo in tal modo si potrà aprire, da sinistra, una prima breccia nel fortino di Maastricht.
*Università del Sannio