C’era un tempo nel quale il nostro sistema bancario veniva definito come una foresta pietrificata. Poi vennero gli anni Novanta, cioè la grande stagione delle privatizzazioni, particolarmente intense e massicce nel settore del credito.
Da allora la “foresta” si è come risvegliata, anzi si è animata parecchio. Come nella “selva dei suicidi” del 13° canto dell’Inferno dantesco, parlano anche i cespugli e rilasciano più interviste dello sciagurato Pier Della Vigna, visto che non vi è vicenda poco chiara o scandalo economico nel quale non sia implicato un banchiere.
Come in una saga nordica, tra gli alberi della metaforica foresta si rincorrono elfi e gnomi. Soprattutto numerosi questi ultimi.
Se una generazione di banchieri poteva un tempo dire di essere come “nani sulle spalle dei giganti”, intendo per questi ultimi i vari Mattioli e Cuccia (ove il riferimento è ovviamente alla grandezza interiore), oggi dobbiamo malinconicamente constatare che i giganti se ne sono andati e son rimasti i nani. La stagione dei “capitani coraggiosi” della finanza è propria finita, è stata troppo breve, se mai è esistita davvero, ed ha lasciato dietro a se solo macerie.
Eppure gli incrementi dei profitti dei grandi operatori del credito non conoscono sosta. Nelle casse degli otto maggiori gruppi bancari nazionali (che rappresentano il 90% della capitalizzazione bancaria di Borsa e il 50% del mercato creditizio italiano) sono entrati nel 2006 profitti netti per ben 14 miliardi di euro. Il 26% in p iù sui già lauti guadagni dell’anno precedente.
Ma questo non è l’effetto del genio italico nel campo finanziario, ma delle conseguenze della politica deflativa della Banca Centrale Europea, che ha provocato quattro rialzi dei tassi di interesse dalla fine del 2005 ad oggi, mentre l’inflazione restava bassa e stabile. In questa situazione, come ha giustamente osservato Andrea Greco su “la Repubblica” di ieri, è un gioco da ragazzi guadagnare sui prestiti. Tanto più che ai nostri “ragazzi”, che reggono le sorti del sistema bancario italiano, poco importa se le conseguenze dell’aumento del costo del denaro deciso a Francoforte taglieggia i redditi già incerti di chi ha contratto un mutuo a tasso variabile.
D’altro canto, se non esiste al di là delle belle parole una responsabilità sociale dell’impresa, se quest’ultima, per dirla con Gallino, è un’impresa irresponsabile, perché mai proprio le nostre banche dovrebbero sentirsi obbligate in qualcosa? A loro basta realizzare grandi profitti e quindi già si preparano ad un’annata ancora più generosa. Tanto più che c’è chi, nella nostra coalizione di governo, si preoccupa, persino con successo, di impedire almeno per ora l’elevamento delle aliquote sulle speculazioni finanziarie al 20%.
Nel frattempo il sistema economico e produttivo del nostro paese perde pezzi. L’ultimo caso è quello Telecom, che giustamente i sindacati definiscono un’impresa “paese” strategica per l’oggi e per il domani dell’Italia e che dunque non dovrebbe essere ceduta ad operatori stranieri.
Ma, per il momento, nella “foresta” risvegliata non si muove foglia. A Mediobanca (oltre che a Generali) è riconosciuta una prelazione sulla partecipazione di Olimpia in Telecom. Ma vi è già chi pronostica che i 40 giorni previsti scadranno senza esito.
Nel frattempo il grande gruppo Intesa-Sanpaolo intende muoversi solo per fornire una testa di ponte per americani e messicani. Quindi il rischio che il principale operatore delle telecomunicazioni finisca in mani straniere (oltretutto poco credibili dal punto di vista del rilancio del progetto industriale) è sempre più concreto, se non altro per un irresponsabile gioco di inerzie.
Romano Prodi, conversando con il direttore de “Il sole 24 ore”, afferma che in nessun altro paese europeo potrebbe avvenire una cosa del genere. Giusto. Ma che conclusione operativa ne trae il Presidente del Consiglio? Quella di formare “una società di garanzia di transito”? Formula oscura ai più, dal momento che alcuni la intendono come nel modello inglese di Open Reach (che però è una semplice divisione di British Telecom non separata societariamente da questa) e altri la intendono invece in modo diverso.
Eppure nelle scorse settimane si era varata la costituzione di un fondo, di concerto con importanti gruppi bancari che tante polemiche aveva suscitato tra gli ultraliberisti ed il liberomercatisti dentro e fuori il governo.
Logica vorrebbe prevedere un intervento di questo Fondo, proprio nell’ottica della salvaguardia della rete che è interesse strategico nazionale e della sua separazione dai fornitori di servizi. Ma tutto tace, come se il governo fosse ancora sotto schiaffo per le soffiate giornalistiche che hanno portato all’allontanamento di Rovati.
Ferruccio De Bortoli, nella citata conversazione con Prodi, si permette il lusso di dire che ministri e segretari di partiti di maggioranza “straparlano” quando invocano un intervento pubblico nei confronti di una società quotata in Borsa, quasi che quest’ultima fosse un luogo di per se precluso alla democrazia.
Se il Presidente della Camera afferma giustamente che del caso Telecom si deve occupare anche il Parlamento, piovono accuse di dirigismo e di interventismo politico.
Un quarto di secolo fa Federico Caffè, nel ventennale della scomparsa di Luigi Einaudi, ci ricordava che il grande economista era un convinto sostenitore dell’economia di mercato e che nonostante ciò “arrivò a sostenere, e non in tono paradossale, che avrebbe desiderato che la creazione di ogni nuova società per azioni fosse approvata con atto del Parlamento, come ai tempi della prima Elisabetta di Inghilterra”.
Ora invece l’unico ad essere interessato all’assemblea degli azionisti Telecom del prossimo 16 aprile sembra essere Beppe Grillo attraverso il suo Blog.
Oh tempora oh mores!